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Perché Merkel rilancia un’Europa a trazione tedesca. Parla Veronica De Romanis

In un comizio in Baviera sabato scorso, dopo aver sorseggiato un boccale di birra locale, Angela Merkel ha spiegato ai suoi elettori che “i tempi in cui potevamo fare pieno affidamento sugli altri sono passati per un bel pezzo”. Un chiaro riferimento al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che al G7 di Taormina si è mostrato inflessibile su temi come il commercio e il clima e che fin dai tempi della campagna elettorale ha criticato la politica economica della Germania. Le parole di Merkel aprono al rilancio di un Ue a trazione tedesca e più indipendente dagli Usa. La chiave di volta sarà la riforma dell’Unione economica e monetaria, ma la Germania non potrà farla da sola, avrà bisogno di alleati. Ecco l’opinione di Veronica De Romanis, economista e autrice del saggio “L’austerità fa crescere” (Marsilio) in libreria dal 1 giugno, autrice anni fa di una biografia ragionata da Merkel.

Cosa significa per l’Europa questo irrigidimento dei toni verso Trump?

I toni di Merkel sono stati molto forti, ha usato la parola “tempo”, “destino”, come per dire “ora basta, bisogna dare una svolta”, un po’ come fece nell’agosto del 2015 sull’immigrazione. Ma è anche vero che ha risposto a toni molto più forti, quelli di Trump: a solo una settimana dalla vittoria alle elezioni aveva criticato il surplus commerciale tedesco.

Cosa divide davvero Merkel da Trump?

C’è innanzitutto un tema di fiducia: Merkel non si fida di Trump per un motivo molto semplice: Trump è imprevedibile, e questo ai tedeschi non piace. Dietro a quest’imprevedibilità di Trump c’è una visione episodica della politica economica, Merkel percepisce che Trump non ha pensato a cosa fare in politica estera e commerciale, ma anche sul clima, e infatti ha chiesto una settimana per pensarci. Peraltro se il Presidente degli Usa non rispetterà l’accordo di Parigi non ci saranno sanzioni, lui può benissimo abbandonarlo senza doverlo rinnegare, per questo Merkel non si fida. Trump vuole dividere, Merkel nel suo probabile quarto mandato vorrà unire, sa che la Germania ha bisogno di stare in un’Europa forte.

La Merkel ha dunque bisogno di alleati. Emmanuel Macron può diventarlo, ma restano divergenze, specialmente di politica economica, come sulle proposte degli eurobond e di un bilancio comune. Come si arriverà a un accordo?

L’asse franco-tedesco c’è sempre stato per tradizione, con Sarkozy e Hollande non è stato un asse molto forte, si è indebolito per le divergenze sulla gestione della crisi. Su temi come immigrazione, difesa, terrorismo ci sarà senza dubbi un punto di incontro. Sui temi economici credo che Merkel, nel caso assai probabile di un quarto mandato, cercherà un compromesso. È chiaro che per fare dei passi più veloci verso un’unione fiscale anche Macron dovrà fare la sua parte: la Francia ha un debito che ha raggiunto il 100% del Pil e non rispetta le regole europee del 3% da nove anni senza ricevere sanzioni, questo dimostra quanto queste regole fiscali non siano poi così rigide. In campagna elettorale Macron ha detto che avrebbe ridotto il deficit, anzitutto per ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale, che in Francia è tra le più alte in Europa.

Quale sarà il ruolo dell’Italia?

Macron in questa ricerca di un compromesso con la Germania può trovare nell’Italia un alleato: se l’Italia, che ha un debito che negli ultimi tre anni è passato dal 129% al 133%, inizia un percorso di consolidamento fiscale e di riforme che erano state avviate e poi interrotte, Macron potrà sedersi al tavolo dei negoziati più forte per parlare di molti dossier importanti, soprattutto per il nostro paese, come il completamento dell’unione bancaria o la garanzia unica dei depositi.

Sugli eurobond Merkel e Schäuble frenano. Ci sono state anche proposte “soft” come i safe bond europei. Su che tipo di eurobond si può arrivare ad un accordo con la cancelliera tedesca?

Sugli eurobond Merkel non ha mai detto di no, ha detto che non possono essere un punto di partenza ma semmai di arrivo. In questo momento lei si trova in campagna elettorale e sa benissimo che parlare di eurobond al suo elettorato significa “pagare per gli altri”. Prima di condividere i rischi, i tedeschi chiedono una riduzione dei rischi. Merkel è pronta a fare un passo avanti e si rende conto che bisogna evitare di mantenere posizioni rigide per non alimentare il populismo.

Venendo all’altro pilastro dell’unione economica, quello del bilancio, lei ricordava che le regole negli ultimi anni non sono state così rigide perché chi le ha violate non è stato sanzionato. Secondo lei il Fiscal Compact va cambiato? Se sì, come?

Guardi, il Fiscal Compact non nasce da un’idea della Germania ma della Bce. In quel momento Mario Draghi per procedere con il Quantitative Easing, cioè all’acquisto di debito pubblico dei paesi europei, doveva giustificarlo agli occhi dell’opinione pubblica di alcuni paesi mettendo delle regole più severe. La crisi è anche, non solo, il risultato di regole non rispettate. Chi chiede oggi in Italia l’abolizione del Fiscal Compact deve sapere che questo vuol dire rinunciare ai 60 miliardi di risparmi in termini di spesa per interessi che noi abbiamo avuto in questi anni grazie al QE.

In Italia molti sbuffano contro il Fiscal compact, però.

Bisogna essere chiari con l’elettorato: l’Italia insieme alla Spagna e la Slovenia è l’unico paese che ha messo il Fiscal Compact in Costituzione, con il voto favorevole di tutti eccetto la Lega che si è astenuta e l’Italia dei Valori che ha votato contro, peraltro nel caso di un’altra crisi di un Paese con finanze pubbliche fuori controllo, i politici che ne chiederanno l’abolizione dovranno andare in Parlamento e chiedere altri soldi per finanziare questi salvataggi: oggi l’Italia nel debito ha 60 miliardi pagati per i salvataggi europei.

Sul piano politico invece si è parlato di istituire un ministro delle Finanze dell’UE. Che conseguenze può avere sulle politiche di bilancio? È un rischio per l’Italia?

Di questo se ne parla spesso, ne ha parlato Macron in campagna elettorale ma anche Schäuble. Le regole europee fiscali sono sui saldi, non sono sui comparti di spesa o sul tipo di tasse. Le faccio un esempio: la Commissione Europea da anni ci raccomanda di ridurre la pressione fiscale sul lavoro spostandola sugli immobili e sul patrimonio. L’ultimo governo ha fatto il contrario: ha abolito l’IMU e ha introdotto una decontribuzione temporanea, senza toccare il cuneo fiscale in maniera strutturale. Come ha sempre detto Renzi la politica fiscale la facciamo noi: dobbiamo rispettare dei saldi, non cosa c’è dentro. Un Ministro delle Finanze europeo invece avrebbe qualcosa da ridire anche su quale spesa si debba toccare e quale tassa vada aumentata o diminuita. Fino ad oggi la Francia è il paese che più si è opposto a questa idea, con Macron le cose sembrano cambiare.

A luglio ci sarà un vertice franco-tedesco fra i Ministri dell’Economia Bruno Le Maire e Wolfgang Schäuble per discutere anche di queste riforme economiche. Se si troverà un accordo, si passerà per una modifica dei Trattati o è una strada non praticabile? Per la presidenza della BCE il nome più quotato sembra quello di Jens Weidmann. La nomina di un tedesco alla BCE cambierà la viabilità di queste riforme?

La modifica dei Trattati richiede l’unanimità, non è un processo facile. Nella prima visita ufficiale di Macron a Merkel c’è stata un’apertura alla modifica dei Trattati qualora sia necessario. Per quanto riguarda la BCE, il suo presidente siede in un tavolo dove ci sono i diciannove governatori delle Banche centrali dell’Euro e i cinque membri del comitato esecutivo. Ognuno di questi membri ha un voto, la Germania ha lo stesso voto del Lussemburgo, di Malta o di Cipro. Il presidente ha quindi una funzione di sintesi, di ricerca di un compromesso. In questi anni Weidmann sul QE è stato contrario, portando avanti le istanze dei tedeschi, opponendosi all’azzardo morale, cioè la paura di togliere ai governi gli incentivi a fare le riforme e rimettere i conti in ordine. Questo è quello che è successo in Italia: il disavanzo italiano dal 2014 al 2016 è passato dal 3% al 2,4%. Questo 0,6 è dovuto alla riduzione della spesa per interessi, che in quei due anni è passata da 4.6% a 4%. Da quando è stato messo in moto il QE e la spesa pubblica si è ridotta per la riduzione delle spese per interessi, è venuto meno l’incentivo sia a fare le riforme sia a fare la spending review.

Sul piano diplomatico, cosa insegna all’Italia questa contrapposizione Trump-Merkel del G7? 

L’Italia è la terza potenza europea, deve stare con i paesi forti dell’Unione Europea. In questa battaglia di Merkel contro il protezionismo di Trump l’Italia non ha altra scelta che stare con la Germania. Parlano i numeri: il primo sbocco commerciale dell’Italia è la Germania, il secondo sono gli Stati Uniti. Un Trump che penalizza la Germania non ci conviene assolutamente. Se la Germania è consapevole di non avere la forza di stare da sola in Ue, sicuramente questa forza non ce l’ha l’Italia. È chiaro però che sull’immigrazione bisognerà sedersi a un tavolo e far capire che in questi anni siamo stati lasciati soli.



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