Oggi, giovedì 8 giugno, l’ex direttore dell’Fbi James Comey, licenziato dalla Casa Bianca il 10 maggio, testimonierà davanti alla Commissione Intelligence del Senato americano, che sta indagando separatamente dalla commissione gemella della Camera e dell’Fbi stesso sul Russiagate, la maxi inchiesta sulle interferenze russe durante le elezioni presidenziali americane, e sulle eventuali collusioni di uomini del repubblicano Donald Trump con questa operazione di Mosca.
LA DEPOSIZIONE
Mercoledì è stato pubblicato sul sito internet istituzionale della Commissione il documento di apertura della deposizione di Comey, la sua dichiarazione spontanea. La deposizione di Comey sarà seguita dalla domande dei senatori. Ci sono intanto quelle 7 pagine in cui l’ex capo del Bureau non dà prove schiaccianti che possano incriminare Trump, ma fornisce svariati elementi particolarmente discutibili. Comey aveva raccolto dei memo, trascritti immediatamente dopo ogni singolo contatto diretto (sei telefonate e tre incontri personali) avuto con il presidente: in uno di questi, per esempio, Trump gli avrebbe chiesto di sospendere le indagini dei Federali contro Michael Flynn, consigliere per la Sicurezza nazionale, dimessosi proprio perché aveva mentito all’Fbi e al vice presidente su delle conversazioni avute con l’ambasciatore russo a Washington.
FLYNN “È UN BRAVO RAGAZZO”
Ne aveva già parlato uno scoop del New York Times, che ora è ufficialmente corroborato: era il giorno di San Valentino (Flynn s’era dimesso il 13 febbraio) e Trump chiese ad altri leader di gabinetto, presenti perché si era appena tenuto un briefing dell’intelligence, di restare solo nello Studio Ovale con Comey. A quel punto il presidente iniziò a parlare del suo ex consigliere (e amico personale), dicendo che era “un bravo ragazzo”, che non aveva fatto niente di male nelle conversazioni con i russi su cui era stato mendace col Bureau – Flynn sembra avesse promesso l’abolizione delle sanzioni alzate per l’interferenza nelle elezioni dall’amministrazione Obama – e poi consigliò a Comey di “lasciarlo andare, proprio perché è un bravo ragazzo” (notare che Flynn è indagato dall’Fbi non solo per il Russiagate, ma anche per questioni fiscali e amministrative su compensi ricevuti da paesi stranieri come la Russia e la Turchia nel suo precedente lavoro da consulente). Ufficialmente Trump ha negato questa ricostruzione già ai tempi in cui è uscita sui giornali.
“HO BISOGNO DI LEALTÀ”
In un altro passaggio del documento di deposizione, Comey racconta di una cena avvenuta il 27 gennaio alla Casa Bianca (ossia: 7 giorni dopo l’inizio ufficiale del mandato di Trump), in cui il presidente fece riferimento al materiale osceno “di cui gli avevo parlato il 6 gennaio” (quella fu la prima volta che i due si incontrarono di persona). Si tratta del dossier redatto da un ex agente segreto dell’Mi6 inglese che parla di un komprovat confezionato dall’intelligence russa dopo aver filmato alcune pratiche sessuali di Trump in una stanza di albergo mentre era a Mosca, le famose “golden shower”. La spia inglese aveva avuto informazioni sul fatto che quel materiale sarebbe servito per tenerlo sotto ricatto. Questo dossier è uno degli aspetti meno consistenti dell’intero Russiagate, non è mai stato confermato, ma i giornali ne hanno avuto informazioni tramite qualche spifferata interna e l’hanno pubblicato: Comey, che era venuto a conoscenza dell’esistenza di questo materiale, aveva informato sia Trump che Barack Obama preventivamente (Obama era ancora presidente in carica, Trump, il 6 gennaio, era ancora solo eletto). Passaggio interessante della deposizione di Comey: Trump durante la cena negò, come già fatto, tutta la vicenda, e disse che “stava pensando di ordinarmi di fare un’indagine su quelle accuse, per dimostrare che erano false”. A quel punto il capo dell’Fbi gli rispose che “avrebbe dovuto pensarci bene” in quanto si sarebbe potuta creare “una narrativa” seconda la quale il Bureau stava indagando sul presidente, “cosa che non era vera”.
LA NUBE
La mattina del 30 marzo, il presidente chiamò Comey dicendogli che tutta la storia del Russiagate era per lui come “una nube” che gli offuscava l’azione di governo, e gli chiese cosa avesse potuto fare per “alzare quelle nube”. Comey rispose che stavano investigando “il più velocemente possibile” e gli spiegò che portare fino in fondo l’indagine avrebbe creato alla presidenza “enormi benefici”, se – come diceva Trump – era solo una caccia alle streghe. Poi Trump gli chiese di dire pubblicamente che lui non era indagato: a questo Comey dice di non aver risposto al presidente, ma l’Fbi preferiva non fare certe dichiarazioni “per una serie di ragioni”, tra cui la “più importante” era che se a un certo punto l’indagine si fosse spostata proprio su Trump in persona allora i Federali avrebbero dovuto annunciare ufficialmente il cambiamento.
IL TRUMP EFFECT SU COMEY
Il punto centrale di tutta la deposizione di Comey sta nel capire se Trump ha cercato o meno di ostacolare la giustizia, comportamento che costò la presidenza a Richard Nixon. C’è un’annotazione sulla dichiarazione dell’ex direttore: Comey dice che prendere memo su questo genere di incontri non era sua abitudine, racconta di aver parlato due volte da solo con Obama e di non aver mai pensato di appuntare dei resoconti da poi passare al dipartimento di Giustizia. È una sottolineatura importante, perché è uno dei vari dettagli in cui l’ex capo dell’Fbi evidenzia un comportamento improprio, inusuale, a tratti pressante, di Trump – come se il presidente fosse ansioso di ricevere da Comey quei favori. Ma gli avvocati di Trump hanno già fatto sapere che basta leggere la deposizione di Comey per capire che il loro assistito è scagionato da ogni possibile colpa.