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Breve storia del metro in Italia (e delle resistenze degli italiani a ogni innovazione)

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Il metro è la lunghezza del cammino percorso dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo di 1/299.792.458 di secondo (Conferenza generale dei Pesi e delle Misure, 1983)

Ogni sistema di misura è congegnato attorno a specifiche soglie numeriche, che finiscono per determinare quello che pensiamo, e non solo quanto mangiamo o spendiamo. Abbiamo constatato la potenza di questo fenomeno col passaggio dalla lira all’euro, laddove i prezzi sono lievitati anche per adeguarsi alle soglie decimali della nuova moneta. Ebbene, qualcosa di ancora più dirompente è accaduto due secoli fa con la comparsa del sistema metrico. Gli italiani si sono sottoposti a un meticoloso e lunghissimo allenamento collettivo, prima di interiorizzare una innovazione che cambiava la loro percezione della realtà. L’introduzione del metro in Italia è stato un cammino accidentato, interrotto da accesi contrasti e accanite resistenze. I suoi detrattori non mancavano di pronosticare reazioni negative dei ceti popolari e rischiosi sconvolgimenti nei mercati, nei costumi e negli equilibri di potere delle comunità locali. Ciononostante, il tema è rimasto in ombra nella storiografia risorgimentale. Forse perché è stato sempre considerato un aspetto tecnico della più ampia vicenda del liberalismo commerciale ottocentesco. Al contrario, ha giocato un ruolo non trascurabile nella formazione dell’identità nazionale, come sostiene Emanuele Lugli (Unità di misura. Breve storia del metro in Italia, il Mulino).

I natali del sistema metrico decimale sono francesi. Nel marzo 1790, Charles-Maurice de Talleyrand (1754-1838) sollecita – in un discorso alla neoeletta Assemblea Costituente – una riforma radicale delle vecchie misure. Gli ideali rivoluzionari della libertà e dell’uguaglianza, infatti, non potevano tollerare nessuna reliquia dell’Antico regime. L’Accademia delle scienze si mette subito al lavoro, nominando un comitato composto dai più illustri scienziati del tempo. Dopo un anno di esperimenti e di discussioni vivaci, alla fine prevalse l’idea di uniformare tutte le misure a una unità lineare. Con un tocco classicheggiante, tale unità venne chiamata metro (dal termine greco che significa misura) e fu definita come la decimilionesima parte del meridiano terrestre dal polo nord all’equatore. La scelta dell’Accademia accantonava così l’ipotesi caldeggiata dallo stesso Talleyrand: quella di assumere la lunghezza dell’oscillazione del pendolo in un secondo come unità di riferimento. Thomas Jefferson l’aveva suggerita poco prima sull’altra sponda dell’Atlantico, e più tardi sarà assunta dal sistema di misure americano.

Pur avendolo formalmente abolito al Congresso di Vienna (1814-1815), le grandi potenze erano restie ad abbandonarne i vantaggi pratici del sistema metrico, particolarmente evidenti nei traffici fluviali. Dopo l’annuncio del suo ripristino in Francia (1837), nel giro di pochi anni il movimento di opinione favorevole alla sua immediata introduzione in Italia guadagnerà crescenti consensi. Nel 1840, Carlo Cattaneo (1801-1869) sulle colonne del Politecnico esortava “gli scienziati e gli artisti e i commercianti italiani, a volersi ridurre una volta dal perditempo di palmi e piedi e bracci e tese e miglia d’ogni stato e d’ogni città, all’unica misura metrica, come noi abbiamo sempre avuto la cura di fare, e come la facilità degli utili studii e la lealtà commerciale richiede”.

Pur anticipato da un editto del 1844, nel Regno di Sardegna il sistema metrico decimale diventerà obbligatorio solo nel 1850. Un gradualismo voluto da Cavour, memore anche dei moti che nel 1848 avevano defenestrato François Guizot (1787-1874). In un discorso al Parlamento subalpino, aveva ricordato che i contadini erano pagati in derrate alimentari, e che se fossero stati retribuiti in una “misura che nella loro mente non rappresenta ancora verun’idea nota e distinta, d’onde sicuramente ne nascerebbe in questa classe numerosissima molto malcontento e irritazione”. Per altro verso, a una borghesia preoccupata di perdere i propri privilegi ribadiva che “l’industria nostra non sarà né oppressa, né rovinata, ma anzi ne sarà stimolata, giacché si è appunto collo stimolo della concorrenza che si fa progredire l’industria”.

Lo statista piemontese alla fine vincerà la partita anche grazie all’appoggio del clero cattolico, che gestiva la maggior parte dell’educazione primaria del Regno. Nel 1849 Giovanni Bosco (1815-1888), un giovane prete che insegnava ai ragazzi poveri del rione torinese del Valdocco, compila “Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità”. L’opuscolo, anch’esso di enorme successo, illustrava i benefici sociali del metro e quelli economici del liberismo, alternando dimostrazioni numeriche a spaccati di vita. Nella visione di don Bosco, il sistema metrico si configurava non solo come una imprescindibile necessità pratica, ma come una leva potente di unificazione culturale.

Il 15 settembre 1859 un decreto regio, poi esteso a tutte le altre annessioni, rendeva vincolante l’uso del metro in Lombardia. Nelle regioni meridionali verrà posticipato al 1863. Iniziava un complesso processo organizzativo, spia del centralismo che avrebbe plasmato le istituzioni dello stato unitario. I modelli originali del metro vengono chiusi nelle casseforti dell’Archivio centrale di Torino. I verificatori delle copie erano di stretta nomina ministeriale. Le loro ispezioni venivano preannunciate da manifesti e tamburini, che invitavano i commercianti a recarsi nella sede della Direzione metrica municipale con i regoli di legno e le stadere in spalla. Uno a uno, il verificatore esaminava gli strumenti. Se combaciavano col suo campione, li punzonava con un marchio in ferro. Se non combaciavano, comminava multe salate.

Con la maggioranza della popolazione italiana ancora analfabeta, queste difficoltà erano in parte inevitabili, nonostante la legge Casati del 1859 avesse incluso il sistema metrico tra le materie d’insegnamento delle elementari. Ma i sillabari scarseggiavano o erano pessimi, come aveva segnalato il Real Istituto lombardo di scienze, lettere e arti presieduto da Alessandro Manzoni. Si andava da imprecisioni grossolane a strafalcioni madornali. La verità è che molti italiani continuavano a pensare ancora con le vecchie misure. Sarà però proprio un italiano (uno di quelli che avevano aperto una breccia a Porta Pia), Gilberto Govi (1826-1889), a redigere la “Convenzione nazionale del metro” siglata a Parigi dai rappresentanti di ventotto nazioni (maggio 1875). La Convenzione prescriveva la fabbricazione dei campioni con lo stesso stampo, custodito nella teca del padiglione di Breteuil, a Sèvres. Il 26 settembre 1889 il nuovo esemplare (una lega al 90 per cento di platino e al 10 di iridio) veniva consegnato al re Umberto I. Sarà uno dei simboli dell’Italia unita.

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