Non si può che convenire con il professor Pellacani sui seguenti aspetti e valutazioni.
Innanzitutto sulla realtà dei fatti, sinteticamente richiamati nell’articolo in esame in materia di indicizzazione delle pensioni pubbliche nel biennio 2012-2013. Per chiarezza dei lettori, richiamiamo i passaggi essenziali. Con sentenza 70/2015 la Corte costituzionale ha stabilito che l’art. 24, c. 25, della legge Monti-Fornero (L. 214/2011) ha intaccato “diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, intesa come retribuzione differita (art. 36, 1° comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, 2° comma, Cost.)”.
La norma censurata aveva invece previsto la rivalutazione automatica delle pensioni, nel biennio 2012 e 2013, solo per i trattamenti di importo lordo fino a 3 volte il minimo Inps e nella misura del 100%. La sentenza anzidetta, immediatamente applicativa, avrebbe dovuto far “rivivere” i meccanismi di indicizzazione preesistenti alla legge Fornero (cioè la legge 388/2000, che stabiliva la rivalutazione al 90% degli indici Istat per gli importi tra 3 e 5 volte il minimo Inps ed al 75% per gli importi oltre le 5 volte), ed invece il ministro Poletti ed il governo Renzi hanno emanato prima il decreto legge 65/2015, successivamente convertito in legge 109/2015, che ha prodotto questi effetti: a) si è intervenuti in modo autoritario nel 2015 per normare “ex novo” l’indicizzazione delle pensioni del 2012 e 2013, con effetto retroattivo quindi determinato da una legge successiva; b) nessuna indicizzazione è stata riconosciuta, per il biennio 2012 e 2013, ai percettori di pensione oltre le 6 volte il minimo Inps, per i quali (in violazione dell’art. 136 Cost.) continua ad operare l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, c. 25, della legge 214/2011 e nonostante che la sentenza della Corte 316/2010 (a cui si richiama, ripetutamente e coerentemente, la sentenza 70/2015) avesse stabilito che “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, infatti le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta” (e la sentenza 316/2010 riguarda le pensioni di importo lordo oltre le 8 volte il minimo Inps, non indicizzate nel 2008); c) la sentenza 70/2015 non è stata correttamente applicata neppure per i titolari di pensioni tra 3 e 6 volte il minimo Inps (la cui perequazione, peraltro , non era stata penalizzata nel 2008), infatti rispetto alla variazione Istat certificata nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%): ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo Inps è stato riconosciuto solo il 40% (anziché il 90%); ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo Inps soltanto il 20% (anziché il 90%); ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo Inps soltanto il 10% (anziché il 75%); d) anche il cosiddetto “effetto trascinamento”, cioè il computo ai fini dei successivi incrementi dei miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013, è stato contingentato, nel 2014 e 2015, al 20% della quota di adeguamento già riconosciuta, ed al 50% nel 2016 ed anni successivi; e) nemmeno una parola su interessi e rivalutazione, pur dovuti per le somme percepite in ritardo dai pensionati penalizzati, cioè solo a partire da agosto 2015. In definitiva, la restituzione del “maltolto” ai pensionati nel 2012 e 2013 si è fermata al 10% circa di quanto previsto da una corretta applicazione della sentenza 70/2015.
Coerentemente, il professor Pellacani riconosce che il decreto 65/2015 “finge” soltanto di “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015” (come dichiarato in premessa come finalità del provvedimento stesso), ma “in realtà ne aggira il dispositivo”. Aggiunge infine che “ dal punto di vista giuridico un dato è indiscutibile: il decreto Poletti è palesemente illegittimo”. Aggiungiamo che, secondo noi, si tratta di un atto di pirateria legislativa, condito dalla solita ipocrisia in cui eccelle la politica nostrana.
In definitiva – riconosce il Pellacani -“Si comprende dunque perché numerose Ordinanze di Tribunali del Lavoro e Corti dei Conti abbiano ritenuto fondata e non irrilevante la questione di legittimità costituzionale (sollevata attraverso migliaia di ricorsi presentati da pensionati danneggiati, tempestivamente promossi da Feder S.P.eV e Confedir), chiamando di nuovo in causa la Consulta”. In realtà alcune sentenze di giudici della Corte dei Conti (in particolare delle Regioni Basilicata e Puglia) hanno rigettato i nostri ricorsi, decisione peraltro contro cui abbiamo già proposto appello presso la Procura generale della Corte dei Conti, ma dalle argomentazioni addotte si evince chiaramente che essi non hanno capito il problema, o non lo hanno voluto vedere. Non so quali di queste alternative faccia più male alle nostre istituzioni di giustizia.
Non condividiamo, invece, alcune valutazioni di prospettiva (contenute nell’articolo in esame) circa le future decisioni della Corte costituzionale, che il 24 ottobre sarà nuovamente chiamata a decidere sulla delicata materia della mancata o ridotta indicizzazione delle pensioni nel biennio 2012 -2013, ovvero sulla violazione del giudicato costituzionale di cui alla sentenza 70/2015.
Innanzitutto, non riteniamo che gli “equilibri nella Corte” siano cambiati (rispetto alla primavera 2015) in sfavore per i pensionati, infatti l’attuale presidente della Consulta, Paolo Grossi, non ha certo minor peso ed autorevolezza dell’ex presidente Alessandro Criscuolo, che si era lasciato “tirare la giacca”, di fronte alle proteste scomposte dei politici colpevoli di aver emanato norme “fuori legge”, al punto di suggerire all’esecutivo del tempo la promulgazione di un decreto per vanificare, in concreto, la portata dei contenuti della sentenza 70/2015 (anche ammettendo che avesse votato a favore di essa).
Inoltre il relatore della nuova pronuncia (giudice Silvana Sciarra) sarà lo stesso della sentenza 70/2015 ed i nuovi giudici nominati a dicembre 2015 (in particolare Augusto Barbera e Giulio Prosperetti) hanno avuto sì accenti critici rispetto alla sentenza 70/2015, ma quando non erano ancora giudici costituzionali ed è verosimile che tale atteggiamento sia stato favorito dal desiderio di compiacere il potere politico, sempre attento a nominare giudici potenzialmente compiacenti. Peraltro gli artt. 3, 36, 38, 53, 136 della Costituzione sono rimasti immutati e continuano a gridare la loro verità, in lettera e spirito.
In secondo luogo non riteniamo possibile che la Consulta possa “salvare integralmente il decreto Poletti”. Sarebbe, in pratica, come se la nuova sentenza, su analoga materia, dichiarasse l’illegittimità della precedente sentenza 70/2015. C’è da dire, tuttavia, che la Consulta non è nuova a sconcertanti “giravolte”, come è recentemente accaduto con la sentenza 173/2016, che ha sovvertito logiche e conclusioni della precedente sentenza 116/2013 su analoga materia: i cosiddetti “contributi di solidarietà” sulle pensioni di maggiore importo. Sconfessare però apertamente pronunce e principi ribaditi e consolidati da almeno trent’anni da parte della Consulta sarebbe veramente troppo, anche nell’Italia d’oggi.
In terzo luogo, tra i possibili esiti della nuova e prossima sentenza della Corte (come prefigurati da Pellacani), la “soluzione di compromesso” che preveda una distinzione tra “il prima” ed “il dopo” del decreto Poletti non è credibile. Innanzitutto perché il decreto Poletti riforma l’art. 24, c. 25, che ha una portata biennale e già l’attuale decreto travalica lo spazio cronologico di propria competenza; poi perché l’indicizzazione del triennio successivo è già normata dalla legge di stabilità del governo Letta (L.147/2013), e successivamente da strumenti analoghi; infine, se si ammette di intervenire “in sanatoria” per ristorare la inadeguata o mancata indicizzazione del biennio 2012-2013 (come a noi pare inevitabile), non è certo pensabile che il beneficio concesso non formi un tutt’uno con l’assegno pensionistico complessivamente maturato da ciascuno, quasi che fosse una “una tantum” sterilizzata ai fini dei successivi incrementi. Quindi l’unico dei possibili esiti della nuova pronuncia della Corte, senza ricorrere ad acrobazie giuridiche, è quello di confermare il proprio orientamento (sentenza 70/2015), dichiarando costituzionalmente illegittimo il decreto Poletti in questione (prima delle ipotesi di Pellacani).
D’altra parte i fatti e le analisi tecniche hanno smentito le giustificazioni addotte dai legislatori per i loro interventi sgraziati ed irrituali (mancata o ridotta indicizzazione delle pensioni; contributi di solidarietà, ecc.), e cioè che si trattasse di disposizioni “temporanee e di misura limitata” (per i percettori di pensioni oltre le 5-6 volte il minimo Inps, l’azzeramento o il dimezzamento della rivalutazione ha riguardato 7 degli ultimi 10 anni e la mancata indicizzazione anche di un sol anno riverbera i suoi effetti negativi sull’intera vita residua del pensionato); che ci fosse “gradualità di sacrificio” (tra chi ha la pensione rivalutata al 100%, ovvero dello 0%, magari dovendo subire anche il “contributo di solidarietà?); che il nostro sistema previdenziale fosse “in eccezionale difficoltà di tenuta” (gli studi documentati del professor Alberto Brambilla dimostrano che i conti della previdenza pubblica italiana sono in perfetto equilibrio, se solo il bilancio Inps non fosse gravato dagli oneri di provvedimenti di chiara natura socio-assistenziale); che ci fosse la necessità di sovvenire alle difficoltà del bilancio dello Stato, ecc.
La recente sentenza della Consulta (n. 275/2016) ha “bruciato” molti degli alibi anzidetti, stabilendo che i diritti “incomprimibili” dei cittadini prevalgono sul pareggio di bilancio (nuovo art. 81 Cost.).
Anche la sentenza 70/2015 (pur apprezzabile nell’elaborazione predisposta dal giudice Silvana Sciarra) non ha avuto però il coraggio di riconoscere come, al di là del nomen juris, la mancata indicizzazione delle pensioni ed i contributi di solidarietà rappresentino di fatto una incontestabile pretesa di natura tributaria, ma in questo caso senza rispettare i due principi costituzionali di cui all’art. 53 della Cost., cioè la universalità del prelievo e la progressività dello stesso.
E così oggi i pensionati titolari di pensioni oltre le 5-6 volte il minimo Inps sono oggetto di una grossolana discriminazione sia all’interno della propria categoria (rispetto ai colleghi con assegno inferiore), come nei confronti dei percettori di altri redditi di pari importo ma non da pensione, essendo gravati da una doppia, anche se impropria, tassazione (e senza che venga loro riconosciuto alcun beneficio sul piano fiscale).
Speriamo allora che i giudici della Corte si ricordino che il loro compito istituzionale è quello di garantire il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali vigenti, e quindi la correttezza del divenire legislativo, piuttosto che porsi in servile ossequio nei confronti del governo o del Parlamento (o dei partiti), da cui peraltro hanno ricevuto la nomina, ma rispetto ai quali non debbono in alcun modo, ora, sentirsi “obbligati”.
A nostro giudizio la Consulta non deve essere (o sembrare) un organismo “ancillare” della politica, attenta al “politicamente corretto” (con tutto quanto c’è di ambiguo, retorico, ipocrita, populista e demagogico in tale espressione), ma alto e dignitoso organismo “terzo”, attento al “giuridicamente ineccepibile”, senza farsi condizionare da interessi di parte od inseguire una ipotetica propria personale Costituzione, che oggi non c’è, e non è detto che ci sarà mai.