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Noterelle sul principio della leadership (non solo di Matteo Renzi)

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Storicamente, è stato forse Platone il primo ad affermare il principio della leadership. Nelle Leggi, il filosofo greco afferma che vi è chi – essendo nato e educato per questa funzione – deve “comandare, guidare e governare” gli altri perseguendo il bene della polis. Nella cultura ellenica e latina l’interesse per i grandi leader politici e militari è costante. Ma solo nel 69 d.C. la Lex de imperio Vespasiani legittima il potere personale assoluto dell’imperatore romano, da cui trae origine la categoria politica del cesarismo. Se cavalieri e re rappresentano i leader più rilevanti del Medioevo, la Great Rebellion inglese del Seicento apre la via al primo episodio cesaristico moderno, la dittatura personale di Oliviero Cromwell. Con la Glorius Revolution di fine secolo comincia invece l’era della monarchia costituzionale, che culminerà nella creazione del Gabinetto di governo e dell’istituto del premier.

Per altro verso, dalla Rivoluzione americana e dalla Convenzione che ne sancisce la vittoria (1787) nasce la repubblica presidenziale. Le due democrazie anglosassoni si sono così assicurate una leadership personale forte attraverso la sua progressiva istituzionalizzazione. I principali Stati europei svilupperanno il modello della democrazia parlamentare, ma la Francia ha vissuto con i due Bonaparte esperienze illiberali, che hanno ispirato una nuova categoria della politica: il bonapartismo (in verità coincidente con il cesarismo per l’essenziale, ossia il potere personale appoggiato dall’esercito e dal popolo tramite l’istituto del plebiscito). Da ultimo, in pieno ventesimo secolo Italia, Germania e Russia sono state soggette a regimi totalitari. Nella Führerprinzip teorizzata da Hitler in Mein Kampf (1925-1927), il leader espresso dalla lotta rivoluzionaria, e perciò “selezionato dalla Natura”, nomina i capi di tutte le istanze dello Stato e del partito unico, costruendo dal vertice la piramide del potere.

La riflessione scientifica sulla leadership matura tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, con i contributi di Gaetano Mosca sulla classe politica e di Vilfredo Pareto sulle élites, di Roberto Michels sui partiti e sui sindacati operai e poi sul fascismo. Ma è stato soprattutto Max Weber a lasciare l’impronta più profonda con l’elaborazione del concetto di carisma. La psicologia ha a sua volta offerto contributi fecondi, con lo studio del rapporto tra leader e folla da parte di Gustave Le Bon e di Sigmund Freud. Mentre il confronto tra totalitarismo e democrazia ha ispirato, negli anni Trenta e Quaranta, le ricerche di Theodor W. Adorno e Mark Horkeimer sulla celebre e controversa “personalità autoritaria”. Dopo il conflitto mondiale, il metodo della psicobiografia è stato applicato da A.L e J.L George al presidente Wilson (1956), da E. Erikson a Lutero (1958) e a Gandhi (1969). Le scuole germogliate dai semi del pensiero freudiano, come la “psicologia del narcisismo”, hanno dato luogo sia a riflessioni teoriche di ampio raggio sia a studi penetranti su singoli leader. Questi approcci “sono stati affiancati da molti altri più propriamente politologici e sociologici [sui movimenti populisti] quasi tutti debitori -in varia misura- dell’elaborazione weberiana” (Luciano Cavalli, Leadership, Treccani, 1996).

Nel secolare dibattito sulla leadership non sono mancate impostazioni poco precise  e partigiane, in particolare del rapporto tra leader e società. Secondo gli studiosi più avvertiti si tratta di un rapporto di interazione, che va esaminato nel suo concreto equilibrio in ciascun caso storico. Cogliendo questo aspetto del problema, Machiavelli scrive nel Principe che per conoscere la “virtù” di Mosè, la “grandezza d’animo” di Ciro e la “eccellenzia” di Teseo erano necessarie le condizioni -rispettivamente- di schiavitù, oppressione e dispersione dei loro popoli; e che quelle tre condizioni si trovavano unitamente presenti nella nostra penisola, ma esasperate, forse proprio per mettere alla prova “la virtù di uno spirito italico”. Quale che sia il giudizio sulle qualità della leadership, l’evidenza empirica ci dice che essa ha giocato un ruolo cruciale soprattutto nelle situazioni straordinarie, ossia di fondazione o trasformazione di uno Stato.

Si è appena detto di Machiavelli, scienziato assai pragmatico della politica. Ma nella filosofia della storia di Hegel l’individuo “cosmico-storico” è pur sempre il protagonista delle grandi crisi di transizione, colui che squarcia l’involucro soffocante del vecchio ordine per farne nascere uno nuovo. Solo che per il grande fiorentino il leader solca un mare dalle rotte sempre ignote, mentre per il filosofo tedesco il porto in cui approderà è comunque prestabilito.

Ecco, pensando alla parabola della leadership di un altro fiorentino (un po’ meno grande, in verità), Matteo Renzi, si può dire che, a furia di solcare rotte sempre più ignote, il vascello di cui è timoniere (il Pd) rischia di essere abbandonato dai suoi marinai, stufi di non vedere mai la terra promessa in cui attraccare.

 

 

 

 

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