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Egitto e Regeni, ecco fatti, silenzi e bufale

Il governo italiano ha deciso di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo, designando Giampaolo Cantini. L’Italia aveva richiamato il suo ultimo rappresentante diplomatico in Egitto, Maurizio Massari, un anno e quattro mesi fa, come ritorsione per la scarsa collaborazione delle autorità egiziane nelle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha informato di questo il Parlamento e durante il dibattito in commissione il ministro degli esteri in pectore del futuribile governo a 5 stelle, l’accaldato Alessandro Di Battista, ha accusato Alfano di non aver risposto alle “esplosive rivelazioni del New York Times”. Di che si tratta? I lettori ci scuseranno, ma forse, dopo l’orgia di propaganda, conviene riassumere i fatti.

Il magazine del quotidiano americano ha pubblicato un lungo articolo (reso noto in Italia il giorno di ferragosto) scritto dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh, che contiene alcune notizie, basandosi su fonti anonime e senza citare circostanze precise, secondo le quali “nelle settimane dopo la morte di Regeni, gli Stati Uniti ottennero informazioni d’intelligence esplosive dall’Egitto: le prove che la sicurezza egiziana aveva sequestrato, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità di funzionari egiziani”, mi ha detto un funzionario dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex funzionari che hanno confermato questa informazione. “Non c’erano dubbi””.

Su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero l’informazione originale: non dissero quale agenzia della sicurezza egiziana credevano ci fosse dietro la morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di sequestrarlo e, probabilmente, ucciderlo”, mi ha detto un altro ex funzionario””. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevano dubbi che questo fosse noto agli alti vertici>, ha dichiarato l’alto funzionario. “Non so se fossero responsabili. Ma lo sapevano. Loro lo sapevano””. Questo è quanto.

L’ipotesi del coinvolgimento di qualche apparato di sicurezza (o dello stesso governo) egiziano nell’uccisione di Regeni era emersa quasi subito. Anche diverse inchieste giornalistiche rafforzarono questi sospetti. Nel settembre, gli stessi investigatori egiziani ammisero per la prima volta che Regeni era stato indagato dalla polizia. Ma l’articolo di Walsh non dice quali prove esattamente furono passate dall’intelligence statunitense al governo italiano né quando. Dunque, non è possibile capire a che punto erano le indagini e quali fossero le informazioni che l’Italia già possedeva. Secondo la presidenza del Consiglio, “nei contatti tra amministrazione USA e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l’altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno prove esplosive”. Esistono davvero questi “elementi di fatto”? Dalla ricostruzione di Walsh non è chiaro, s’intuisce che gli Stati Uniti non condivisero tutte le loro informazioni, per non bruciare la fonte. Insomma, gli americani, se lo sapevano, non dissero agli italiani chi fosse il responsabile dell’uccisione di Regeni.

Il 4 ottobre 2016 il Guardian ha pubblicato una puntuale ricostruzione di Alexander Stille il quale ricorda alcuni fatti sottolineando i troppi (e inquietanti) silenzi anche da parte del dipartimento di Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Cambridge. Nell’autunno del 2015 Regeni aveva ottenuto una borsa di studio di 10 mila sterline da una fondazione britannica per un progetto di sviluppo. Il giovane aveva menzionato la cosa a Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti protagonisti della rivolta contro Mubarak. L’interesse di Abdallah indusse Regeni a lasciar perdere, ma “la notizia che un giovane straniero, italiano che lavora per gli inglesi, aveva disponibilità di denaro per finanziare il sindacato degli ambulanti può aver colpito la polizia”, scrive Stille. Il ricercatore aveva partecipato a un meeting in dicembre nel quale sembra si fosse discusso di nuove proteste a piazza Tahrir.

Nel gennaio 2016, Abdallah denuncia Regeni perché “non voleva occuparsi solo dei venditori ambulanti, ma aveva altre intenzioni, non sono un infiormatore, ma credevo di proteggere il mio paese”, dichiara al giornale in lingua araba Aswat Masriya. Che cosa è successo dopo si può immaginare, ma nessuno lo ha scoperto esattamente, a quanto pare nemmeno gli uomini della Cia. Il governo egiziano ha detto di aver investigato su Regeni, ma di non aver trovato “nulla che avesse a che fare con la sicurezza nazionale”. Fatto sta che il giovane ricercatore scompare, viene torturato, ucciso e il corpo fatto trovare lungo l’autostrada Cairo-Alessandria il 3 febbraio 2016 mentre è in corso una visita di imprenditori italiani guidata dalla ex ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.

Non è nota esattamente nemmeno la genesi della ricerca di Regeni. Il suo supervisore a Cambridge, la professoressa di origini egiziane Maha Abdelrahman che ha studiato e lavorato alla American University del Cairo, dove è passato anche Regeni nell’anno accademico 2015-16, è una esperta in materia di sindacati indipendenti. Ha scritto moltissimo sulle proteste e contro il regime militare di Al Sisi, difendendo le proteste e di conseguenza il ruolo della Fratellanza musulmana che portò al potere Morsi. La professoressa si è mostrata reticente, ha rifiutato di collaborare con la polizia italiana e di consegnare le email scambiate con Regeni, ha sostenuto che è stato il ricercatore a proporle di lavorare sui sindacati indipendenti (eppure ella stessa se ne è occupata come risulta evidente dai suoi scritti), ha ammesso di aver incontrato il ricercatore al Cairo dopo Natale, ma di aver dimenticato il soggetto della loro discussione. Forse voleva solo fargli gli auguri di Natale.

Il corpo docente del college del dipartimento l’ha protetta rifiutando di assumersi qualsiasi responsabilità per quel che è accaduto. Ma anche le autorità inglesi e il Foreign Office non hanno mosso un dito, nonostante Regeni lavorasse per una istituzione della Gran Bretagna. Cambridge è una università privata, tuttavia la storia ci ha insegnato quali sono i rapporti con gli organismi pubblici inglesi, a cominciare dall’intelligence. Oxford Analytica con la quale Regeni ha collaborato tra il 2013 e il 2014 è una società di analisi geopolitica fondata nel 1975 da David Young, collaboratore di Nixon e di Kissinger. “Regeni è stato mandato allo sbaraglio dai suoi docenti”, ha scritto La Stampa. Per il generale Mario Mori e Fabrizio Cicchitto c’è lo zampino dei servizi segreti britannici.

Il governo italiano ha aperto una crisi diplomatica di gravità assoluta per proteggere la verità sulla sorte di un cittadino italiano abbandonato da tutti, a cominciare dai suoi “datori di lavoro” inglesi e dal governo di Londra. Questi i fatti ricostruibili in sintesi. Dov’è la pistola fumante che Alfano nasconde? Perché Di Battista non ne parla? Forse a lui Walsh ha rivelato quel che non ha scritto sul New York Times? O magari ha contatti con la Cia e lo MI6? Se è così, parli. Non è il ministro degli Esteri “ombra”? O forse l’ombra di un ministro degli Esteri? “Right or wrong my country”, dicono gli anglosassoni. E lo dimostrano. Loro.



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