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Keynes e il gruppo di Bloomsbury

John Maynard Keynes

Dicembre 1902, King’s College di Cambridge: la matricola John Maynard Keynes riceve la visita di due giovani alti, magri e dalla faccia triste. Sono Giles Litton Strachey, futuro autore di Eminent Victorians,  e Leonard Woolf, futuro marito di Virginia Stephen. Volevano capire se fosse degno di appartenere al gruppo più esclusivo di tutta l’università: la Società della Conversazione, detta anche Società degli Apostoli. Come annota Robert Skidelsky nella sua biografia, Keynes era stato adocchiato per l’eccellente reputazione di cui godeva a Eton e come figlio di Neville, docente di logica. Dopo la visita, viene osservato per qualche settimana e, infine, giudicato idoneo.

Inizia così la sua partecipazione alle riunioni che si svolgevano ogni sabato sera nella stanza di Strachey, che fungeva da segretario. Un moderatore leggeva un breve appunto su un argomento concordato. Accovacciati davanti al caminetto, apostoli e “angeli” (membri non più attivi della confraternita) lo discutevano secondo un ordine prestabilito. Secondo Henri Sidgwick, eminente figura di “pio agnostico” del tardo periodo vittoriano, l’atmosfera di questi incontri era segnata dalla “ricerca della verità, condotta con assoluta devozione e senza riserve da parte di un gruppo di intimi amici”.

Gli atti della Società venivano custoditi in un baule di cedro (“l’arca”) donato da Oscar Browning, il personaggio più in vista di Cambridge. Browning era un educatore eccentrico e snob, che non nascondeva la sua omosessualità. Nominato tutor di storia nel 1880, era famoso per assopirsi durante le lezioni e adorava insegnare musica ai suoi domestici proletari. Ma era anche un beniamino degli studenti, per il suo anticonformismo e per le memorabili feste che organizzava a casa sua.

Le stravaganze di Browning affascinano Keynes, che improvvisamente si trova scaraventato in una realtà brulicante di associazioni e dibattiti di ogni tipo. Appena arrivato al King’s scrive ai genitori che non intende limitarsi allo studio della matematica e dell’economia. Segue quindi le lezioni di George Edward Moore sull’etica e quelle di John Ellis McTaggart sulla metafisica. Stende un trattatello sul teologo Pietro Abelardo e uno su Tempo e cambiamento. Comincia a collezionare libri, si lancia nel canottaggio, gioca a bridge. Ben presto si afferma come una delle menti più brillanti della Società. Un cenacolo di ingegni straordinari, cementato da un iperbolico senso di superiorità.

Eppure grandi scienziati come Charles Darwin e l’eugenista Karl Pearson, o grandi economisti come Arthur Cecil Pigou e Alfred Marshall, fiori all’occhiello della Cambridge dell’epoca, non ne avevano  fatto parte. Forse perché la Società appariva come una chiusa conventicola di austeri filosofi, il cui indiscusso nume tutelare era Moore. I suoi Principia ethica, ricorda Keynes in My Early Beliefs (“Il mio credo giovanile”), un saggio letto nel 1938 al Bloomsbury’s Memoir Club, esercitò sugli apostoli un potere liberatorio.

In questo atteggiamento distaccato si rispecchiava una reazione tipica dei rampolli della upper class inglese all’industrialismo degli albori del Novecento. Una reazione fondata sul rifiuto dei tabù vittoriani e sul disprezzo degli affari, a cui veniva contrapposto il culto delle lingue morte, degli ideali cavallereschi, delle utopie sulla “giusta condotta”. In tale reazione, inoltre, si rifletteva l’immagine che la comunità universitaria cantabrigese aveva di sé stessa: un’isola di sapere e di civiltà circondata da orde di barbari e filistei. Solo nel 1903, quando Joseph Chamberlain lancia un appello in favore del protezionismo, Keynes si schiera apertamente a sostegno del libero scambio. Aderisce al manifesto di Marshall, pubblicato sul “Times” il 15 agosto, in cui si confutava l’equazione tra aumento delle importazioni e aumento della disoccupazione. Pochi mesi dopo scrive a Bernard Swithinbank, allievo con lui a Eton: “Signore, odio tutti i preti e i protezionisti (…) Libero scambio e libero pensiero! Abbasso i pontefici e le tariffe. Abbasso quelli che dichiarano che siamo dannati e rovinati da importazioni a basso costo”.

La personalità poliedrica di Keynes, la sua intelligenza e simpatia, sono le doti che gli consentono di mietere amicizie e successi in ogni campo. L’unico apostolo a tenergli testa è Strachey. La sua ironia corrosiva, il suo originalissimo eloquio, il suo piglio un po’ ieratico, suscitavano in Keynes  sentimenti  di stima e  di rispetto. Il legame che li unisce diventa subito affettuoso, ma rischia di spezzarsi quando entra in scena Arthur Lee Hobhouse, uno studente del Trinity “oppidan”, ossia di estrazione aristocratica. Lytton lo presenta a Maynard il 30 novembre 1904 come un “embrione”, cioè un potenziale apostolo. Qualche giorno dopo scrive a Leonard Woolf: “Hobhouse è biondo, ha capelli ricci, carnagione delicata, naso arcuato, viso delizioso e un’aria incantevole(…). Sono innamorato e Keynes, che ha pranzato insieme a lui, oggi (…) è convinto sia la persona giusta. È terribile e affascinante come deve essere un embrione”. Grazie ai suoi due autorevolissimi sponsor, Hobhouse viene eletto apostolo. Ma quando rivolge le sue attenzioni a Maynard, Lytton ne rimane sconvolto.

Nei diciassette anni successivi a quella con Hobhouse, Keynes ebbe diverse relazioni omosessuali, tra cui una – con il pittore Duncan Grant – molto importante. Anch’essa motivo di un’altra crisi rovinosa dei suoi rapporti con Strachey. La tesi di Skidelsky è che ambedue, fin dall’adolescenza, erano cresciuti con l’opinione “aristotelica” che le donne fossero creature inferiori o imperfette. Quindi ritenevano che l’amore per i giovani uomini fosse spiritualmente più elevato, tanto da elaborare una dottrina etica della “Suprema Sodomia”. Beninteso, Keynes era pienamente consapevole di camminare sul filo del rasoio. Le disavventure e la condanna di Oscar Wilde bruciavano ancora. “Sino a quando non si ha a che fare con le classi inferiori o la gente di strada – scrive a Strachey nel 1906 – e si è discreti nelle lettere a terzi, non si corre nessun pericolo, o quasi”.

Il 1906 è anche l’anno in cui le donne e la politica fanno il loro ingresso a Cambridge. Complici il successo elettorale del partito laburista e l’avanzata del movimento delle suffragette, viene riattivata da Been Keeling la Fabian Society, primo club universitario a cui erano ammessi entrambi i sessi. Il radicalismo cantabrigese si tingeva di colori socialisti e femministi. Maynard non è indifferente al vento del cambiamento. Alcune donne, in particolare Ka Cox, Daphne e Brynhild Olivier, entrano nella cerchia delle sue amicizie più strette. Annuncia al padre esterrefatto di “essere a favore della confisca della ricchezza”. Più in generale, le sue scelte politiche di allora rispondevano all’idea che le imposte progressive fossero la principale alternativa al protezionismo. Quando la Camera dei Lord boccia il budget proposto dal Cancelliere dello Scacchiere Lloyd George, portando il Paese alle urne, nel dicembre 1909 scrive un articolo per il “Cambridge Daily News” in cui invitava a votare liberale, persuaso che una vittoria dei conservatori avrebbe spinto l’Inghilterra nel caos economico e istituzionale.

Nonostante il suo impegno nella campagna elettorale, Keynes non guarda a Westminster o alla City, ma al quartiere Bloomsbury di Londra. Affitta una camera da letto a Fitzroy Square, nello stesso edificio in cui alloggiava Duncan Grant. Il “gruppo di Bloomsbury” si era già formato. Nasce  nel marzo 1905, quando i giovani Stephen, Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian danno inizio ai loro giovedì sera “At Homes” al 46 di Gordon Square. Si aggiungono subito dopo gli amici cantabrigesi di Thoby: Saxon Sidney-Turner, Clive Bell, Litton Strachey e Desmond MacCarthy.

Ma è solamente nel novembre 1910 che gli inglesi scoprono l’esistenza del Bloomsbury. Roger Fry, un vecchio apostolo che aveva lavorato al Metropolitan Museum di New York, organizza una mostra presso le Grafton Galleries dedicata a Manet e ai post impressionisti. Vengono esposte decine di opere di Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Pubblico e critici gridano allo scandalo. I dipinti francesi vengono bollati come fantasie di pazzoidi. I “bloomsburiani”, al contrario, li difendono  con entusiasmo. Meno dirompente, ma più spettacolare per le ripercussioni sulla vita artistica londinese, fu la stagione dei balletti russi di Djagilev e Nizinskij al Covent Garden nel giugno 1911.

Era come se il gruppo di Bloomsbury non avvertisse alcun segno premonitore della tragedia che stava per abbattersi sull’Europa: soltanto un gioioso senso di risveglio dopo la lunga notte vittoriana. Del resto, i “bloomsburiani” concepivano la cultura come una leva non per modificare i rapporti sociali, ma per orientare l’élite del Paese contro l’ipocrisia dei costumi correnti. In fondo, il loro messaggio era diretto esclusivamente alla classe media con alto grado di istruzione. Nel corso degli anni, il gruppo riuscirà a trovare sbocchi e tribune per il proprio lavoro in prestigiose riviste e gallerie d’arte, e a diventare così un’influente forza intellettuale. Un ruolo conquistato grazie anche all’acume finanziario di Keynes e alla sua generosità personale. Condannato o prescelto, per capacità e inclinazione, ad agire più nel mondo dei mezzi che non nel mondo dei fini, questo era il suo modo di promuovere e di rendere omaggio a quella concezione della “vita buona” che condivideva con gli amici.

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