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Ecco come il New York Times e il Washington Post attaccano Trump sui Dreamers

C’è una linea che unisce gli articoli scritti sulla decisione di Donald Trump di tagliare il DACA dagli Editorial Board del New York Times e del Washington Post (due giornali che sono in continua competizione per vincere il titolo di quotidiano più venduto e affidabile del mondo): entrambi contestano al presidente di “non averci messo la faccia” (riprendendola come l’ha messa Mattia Ferraresi sul Foglio). Trump ha mandato davanti ai microfoni il procuratore generale Jeff Sessions a spiegare i dettagli di una decisione su cui il presidente s’è limitato a lanciare un paio di tweet anticipatori. Perché abbia preso questa posizione, pragmatica, da leone-da-tastiera è da dividere in più punti.

Primo, lo ha fatto per riqualificare Sessions, che da fine luglio, per un paio di settimane, è stato un suo bersaglio interno (causa: Russiagate): mandarlo ad annunciare pubblicamente il ritiro del DACA significa dargli atto che la sua posizione è stata su questo aspetto quella vincente nell’amministrazione. Sessions infatti, insieme al suo ex scudiero ora policy-maker della Casa Bianca Stephen Miller, è il più duro sull’immigrazione del club trumpiano doc, ed è da sempre stato durissimo sulla necessità di considerare anche i Dreamers come degli immigrati clandestini, irregolari a prescindere da età e storia. Secondo: oltre a questo aspetto puramente politico-tecnico, ce n’è uno politico elettorale, di consenso diciamo. Attraverso Sessions, capo del dipartimento di Giustizia, Trump cavalca un vecchio motivetto repubblicano che diceva che il DACA era incostituzionale perché deciso tramite un executive order da Barack Obama. Obama prese quella decisione perché erano anni che una legge del genere – il Development, Relief, and Education for Alien Minors Act, acronimo DREAM, per cui Dreamers – era in empasse al Congresso (il Post lo spiega bene). Obama firmò un ordine esecutivo rinnovabile che sbloccò la situazione (e fu anche un’esigenza dettata da una contingenza elettorale, perché da lì a poco, nel 2012, ci sarebbero state le sue seconde presidenziali). Terzo, collegato: mettere Sessions e il dipartimento in campo apre la strada all’alibi. Scegliere di abolire il DACA è stato complicato per Trump, ma non metterci la faccia e passare la palla al Congresso seguendo la linea della legittimità legislativa e costituzionale, permette al presidente di proteggersi dalle conseguenze di questa decisione.

Il Nyt dice che le motivazioni che hanno mosso la scelta del Prez sono “false” (ripetuto tre volte) e difende Obama, autore di un provvedimento “moralmente giusto”. Accusa il Congresso, responsabile ultimo di questa situazione, perché non ha mai voluto trovare una soluzione definitiva per dare pieni diritti a quelle persone che di fatto, dice il quotidiano liberal newyorkese, sono cittadini americani, che amano l’America, conoscono solo l’Americana, hanno studiato in America, consuma prodotti in America e pagano le tasse in America (sono oltre 750 mila contribuenti in fin dei conti). Il WaPo pure batte su questo tasto economico – perché sa che è un nervo scoperto per Trump, che si troverà a breve a combattere per il passaggio della riforma fiscale in parlamento e che ha un solo vanto per dar vento alla sua amministrazione: l’economia e il lavoro americano vanno bene. Dicono gli editorialisti che segnano la linea del giornale di Jeff Bezos (uno dei grandi CEOs che il 31 agosto hanno firmato una lettera per chiedere al presidente di non chiudere il DACA): i Dreamers sono un bene per l’economia americana, pagano le tasse qui, hanno studiato, hanno comprato case e messo su imprese, sono diventati una risorsa. Se non c’è cuore, che almeno ci sia pragmatismo, insomma.

 



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