Un impervio tentativo di distensione è in corso in queste ore tra Hamas, il movimento islamista che governa di fatto la striscia di Gaza, e l’Autorità Nazionale Palestinese del presidente Mahmoud Abbas alias Abu Mazen, il governo della Palestina riconosciuto a livello internazionale. Grazie alla mediazione egiziana, Hamas ed al-Fatah, la fazione che controlla l’Anp, hanno raggiunto e annunciato ieri un’intesa sulle sorti della striscia. Hamas ha dichiarato di essere pronto a sciogliere il Comitato amministrativo, sorta di governo parallelo che regge le sorti di Gaza, nonché di permettere ai ministri dell’Anp di prendere il timone e di essere disponibile ad elezioni legislative da tenersi nel prossimo futuro.
La decisione di Hamas arriva a seguito non solo delle pressioni egiziane, ma soprattutto delle azioni ritorsive prese dall’Anp contro esso dopo che in primavera aveva annunciato la formazione del Comitato amministrativo. L’Anp aveva tagliato i finanziamenti al governo islamista, con conseguenze pesanti sulle forniture di elettricità, sui servizi sanitari e sugli stipendi dei funzionari. In un territorio piegato da una pesante disoccupazione, stimata al 42%, dalla scarsità e pessima qualità dei servizi di base e dalla cronica dipendenza della popolazione dagli aiuti umanitari, le misure dell’Anp sono state senz’altro decisive nel costringere Hamas ad un passo indietro.
L’accordo, in ogni caso, appare fragile e soggetto ad un’ardua implementazione. I due governi rivali nutrono posizioni inconciliabili da un punto di vista ideologico, con Hamas ancora aggrappato alla visione di un jihad con Israele e l’Anp storicamente assestato su una linea secolare e pragmatica di confronto con l’avversario israeliano. Ma sono i dettagli di un’intesa sulla spartizione del potere a ballare, in questo tentativo di rapprochement. Se le dure condizioni di vita della popolazione possono aver spinto Hamas a dialogare con i rivali di Fatah e a prospettare un dissolvimento della sua autorità su Gaza, sembra improbabile che esso rinuncerà al controllo militare della striscia, esercitato in questi anni con il pugno di ferro e sfociato in conflitti aperti con Israele, come quello devastante del 2014 costato la vita a un migliaio tra civili e miliziani.
Non è escluso inoltre che la manovra di Hamas sia un puro esercizio tattico. Sondaggi recenti mostrano come Fatah sia caduta nel discredito, e che in caso di prossime elezioni Hamas vincerebbe a man bassa tanto nella West Bank quanto a Gaza. Il ramoscello di ulivo allungato domenica rappresenta inoltre una polpetta avvelenata per Abu Mazen, che mercoledì incontrerà Donald Trump nell’ambito dei lavori dell’Assemblea Generale Onu: è quanto mai prevedibile la reazione negativa del presidente americano ad un accordo tra l’Anp e un movimento che in gran parte del mondo è considerato terrorista. Non è un caso che l’annuncio di domenica da parte degli islamisti sia stato salutato con cautela da Abbas, che ha sì salutato con favore le decisioni di Hamas ma si è astenuto dall’esprimere entusiasmo.
L’intesa raggiunta ieri appare quindi più che altro il risultato delle pressioni dell’Egitto, che da tempo esprime preoccupazione per i possibili legami tra Hamas e l’insurrezione jihadista in corso in Sinai. Uno degli aspetti decisivi di ogni accordo Anp-Hamas dovrà infatti vertere sul controllo dei confini, e quello di Rafah che collega Gaza ed Egitto rappresenta da sempre il nodo più delicato, a seguito delle continue infiltrazioni di uomini e merci attraverso tunnel clandestini nella cui costruzione Hamas ha da tempo mostrato un certo expertise.
Sullo sfondo di queste grandi manovre si proietta la nuova road map sul processo di pace tra Israele e palestinesi delineata dalla Casa Bianca. Donald Trump ha dato mostra di voler aprire un nuovo capitolo in questa eterna saga, delegando al suo genero e super-consigliere Jared Kushner e all’inviato speciale Jason Greenblat poteri assoluti sulla materia. L’approccio dell’amministrazione Trump si caratterizza per il ribaltamento rispetto a quello dei governi precedenti, da inside-out (con gli accordi diretti tra le due parti in causa che vengono poi valutati ed eventualmente ratificati dalle potenze arabe) a outside-in (con i Paesi arabi che esercitano pressione sui fratelli palestinesi e su Israele onde indurli ad un’intesa). In questa nuova cornice, l’Egitto è destinato a ricoprire un ruolo chiave, da cui la mediazione tra le fazioni palestinesi rivali e il tentativo di risolvere uno stallo che perdura da quando, dieci anni or sono, l’Anp e Hamas combatterono una guerra civile che risultò nella separazione di fatto di West Bank e Gaza e nella formazione del governo ombra di Hamas. Una frattura che, prima di ogni altro fattore, è destinata a pesare su ogni prospettiva di pace.