Poco più di tre mesi dopo le dimissioni, Libero Milone, primo revisore generale dei conti del Vaticano, racconta la sua verità. Lo fa convocando diverse testate giornalistiche e le sue dichiarazioni non mancheranno di alimentare polemiche e addensare ancor più nubi sulle questioni che riguardano le finanze d’oltretevere. Al Corriere della Sera, Milone dipinge un quadro radicalmente opposto a quel divorzio consensuale di cui la Santa Sede aveva parlato dando conto dell’addio – dopo solo due anni – del revisore dei conti, uno dei perni della grande riforma economica avviata dal cardinale George Pell. Innanzitutto, le dimissioni sono state tutt’altro che volontarie: “Sono stato minacciato di arresto. Il capo della Gendarmeria mi ha intimidito per costringermi a firmare una lettera che avevano già pronta (…). Ricordo che a un certo punto il comandante Giandomenico Giani mi urlò in faccia che dovevo ammettere tutto, confessare. ma confessare che cosa? Non avevo fatto nulla”.
RESISTENZE DELLA VECCHIA CURIA
Al di là dell’impianto scenografico del fatale momento – “Siccome rivendicavo la mia innocenza, Giani mi disse che, o confessavo, o rischiavo di passare la notte in Gendarmeria. Se il vostro obiettivo è farmi dimettere mi dimetto. Vado a preparare la lettera, dissi. Risposero che era già pronta. L’andarono a prendere. La lessi e dissi: questa non la firmo. Perché era il 19 giugno ma la lettera era datata 12 maggio” – Milone fa capire chiaramente (anche se è pur sempre la sua parola contro quella del Vaticano) che la partita entro le mura vaticane sia ben più grossa, che la “cassa” ancora provochi resistenze a ogni tentativo di scalfire un pluridecennale potere consolidato.
MONTATURA PER BLOCCARE LE RIFORME
Insomma, le accuse che hanno portato al suo allontanamento – peculato e sconfinamento dai compiti affidatigli – non sarebbero altro che una montatura, un espediente per bloccare l’opera di risanamento e trasparenza messa in pratica subito dopo l’elezione di Francesco. Milone fa nomi e cognomi, tira in ballo il sostituto della Segreteria di Stato (cioè il numero due dopo il cardinale Pietro Parolin) mons. Angelo Maria Becciu, dicendo che è stato lui a proibirgli ogni contatto con Bergoglio e ad annunciargli che “il rapporto di fiducia si era incrinato”. E sottolinea un ruolo determinante del comandante della Gendarmeria, Giani.
LEGAMI CON L’INCHIESTA RIGUARDANTE PELL?
Ma le allusioni che fa Milone vanno ben oltre e arrivano addirittura a far intendere che la riapertura dell’inchiesta penale per pedofilia contro il cardinale George Pell, prefetto della Segreteria per l’Economia, non sarebbe altro che un altro tassello della gigantesca montatura: “Noto solo che le indagini su di lui per un caso di quarant’anni fa sono affiorate circa un anno fa. E, si legge nel decreto consegnatomi, nello stesso periodo la Gendarmeria ha cominciato a indagare su di me. Voglio credere che sia una coincidenza. Ultimamente lavoravamo a un nuovo codice sugli appalti”.
IL RUOLO DEL PAPA
A questo punto gli interrogativi si spostano sulla figura del Papa. Sapeva? Ha condiviso l’allontanamento? L’ha voluto lui? Milone dice che Francesco non sa nulla di come stanno le cose nei meandri delle finanze vaticane. “A metà luglio ho scritto al Papa attraverso un canale sicuro e credo abbia avuto la lettera. Spiegavo che ero vittima di una montatura, e meravigliato dell’uscita contemporanea di Pell. nessuna replica” (…). Dispiaciuto e molto. Conoscendolo di persona, e stimandolo moltissimo, il suo silenzio totale me lo spiego o col fatto che non gli hanno consentito di parlare con me, o con altre ragioni che non conosco”. Tra l’altro, aggiunge, “dopo le mie dimissioni non è successo niente: come se il vero e unico obiettivo fosse quello”.
LE DUE FATTURE SOSPETTE
La versione dell’ex revisore parte dai fatti, e cioè dalla contestazione che ha portato alle dimissioni (volontarie secondo il Vaticano, forzate secondo lui). “Mi hanno mostrato due fatture intestate a un unico fornitore, e accusato di aver compiuto una distrazione di fondi: dunque un peculato, come pubblico ufficiale. Vidi che su entrambe le fatture c’era il timbro del mio ufficio, ma solo una era firmata da me. L’altro aveva come firma uno scarabocchio. Mi chiesi chi l’avesse timbrata e pagata, e a chi”. La risposta che si è dato è che “una delle due era falsa. Erano conti per indagini ambientali, per 28 mila euro, per ripulire gli uffici da eventuali microspie. In più, il decreto del tribunale parlava solo delle mie competenze contabili, senza citare i controlli sull’antiriciclaggio e la lotta alla corruzione, contenute nello statuto. E con questo mi hanno accusato anche di avere cercato informazioni impropriamente su esponenti vaticani. Scoprii che indagavano da oltre sette mesi su di me. Hanno sequestrato documenti ufficiali protocollati e coperti dal segreto di stato”.
LA NOTA DEL VATICANO
All’ora di pranzo, come prevedibile, la Santa Sede ha diffuso un comunicato in cui “prende atto con sorpresa e rammarico delle dichiarazioni rilasciate dal dott. Libero Milone, già Revisore Generale. In questo modo – si legge – egli è venuto meno all’accordo di tenere riservati i motivi delle sue dimissioni dall’Ufficio. Si ricorda che, in base agli Statuti, il compito del Revisore Generale è quello di analizzare i bilanci e i conti della Santa Sede e delle amministrazioni collegate”.
“INDAGINI SULLA VITA PRIVATA DI ESPONENTI DELLA SANTA SEDE”
Invece, spiega il Vaticano, “risulta purtroppo che l’Ufficio diretto dal dott. Milone, esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede. Questo, oltre a costituire un reato, ha irrimediabilmente incrinato la fiducia riposta nel dott. Milone, il quale, messo davanti alle sue responsabilità, ha accettato liberamente di rassegnare le dimissioni. Si assicura, infine, che le indagini sono state condotte con ogni scrupolo e nel rispetto della persona”.