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Cosa pensa e dove va il Partito della Silicon Valley

L’amnistia obamiana per i figli degli immigrati irregolari, di cui il presidente Donald Trump ha annunciato la messa in discussione, è soltanto l’ultimo terreno di scontro fra l’industria high-tech – col suo epicentro nella Silicon Valley – e la Casa Bianca. I guru milionari della tecnologia si erano già schierati contro ogni restrizione dell’immigrazione (dal cosiddetto “Muslim ban” in poi), contro il divieto per i transessuali di accedere all’esercito, contro le parole non abbastanza nette del Presidente sugli scontri a sfondo razziale di Charlottesville. Tanta è l’acrimonia verso Trump che qualcuno si chiede: e se presto Tim Cook (ceo di Apple), Mark Zuckerberg (Facebook, nella foto), Bill Gates (fondatore di Microsoft) e i loro colleghi fondassero un partito politico?

Per capire a cosa assomiglierebbe questa nuova creatura, conviene sfogliare uno studio appena pubblicato da alcuni scienziati politici dell’Università di Stanford, il primo nel suo genere perché analizza – sondaggi alla mano – le attitudini politiche dei principali animatori della scena tecnologica americana e dunque mondiale.

Dopo aver intervistato 600 leader del settore tecnologico, fondatori o dirigenti di società private che tutte insieme hanno raccolto 19,6 miliardi di dollari in venture capital, gli autori della ricerca – David Broockman, Greg F. Ferenstein e Neil Malhotra – tracciano il ritratto ideologico di questo gruppo. Comparandolo a un campione di grandi donatori per il Partito democratico e poi più in generale all’elettorato americano. Prima considerazione: sui molti temi oggi in discussione, i guru tecnologici – non soltanto californiani – sono decisamente “liberal”, cioè a sinistra, spesso anzi sono più a sinistra degli storici elettori democratici. Si prendano per esempio i “social issues”, che in Europa definiremmo “temi etici”: su matrimonio gay, aborto, controllo delle armi e pena di morte, gli imprenditori high-tech sono decisamente più libertari dell’elettore democratico medio. In materia di “globalismo”, il 44% di questi imprenditori – la percentuale più alta nell’elettorato americano – sostiene addirittura che “la politica commerciale dovrebbe avere come priorità il benessere di coloro che vivono al di fuori degli Stati Uniti invece degli americani”; il 56% di loro favorisce “un aumento dei livelli dell’immigrazione”, il 15% in più rispetto all’elettorato dei democratici. Altra considerazione, più sorprendente: gli imprenditori tecnologici sono dei convinti sostenitori di una maggiore tassazione e di una maggiore redistribuzione della ricchezza. Una stragrande maggioranza del campione considerato è favorevole ad alzare le aliquote su chi guadagna 250mila dollari o 1 milione di dollari l’anno (lo crede rispettivamente il 76 e l’83% degli intervistati). L’82% degli stessi è favorevole a una copertura sanitaria universale, sul modello europeo per intendersi, anche se ciò significasse dover alzare le tasse. Insomma, scordiamoci l’imprenditore della Silicon Valley amante di Ayn Rand e degli “animal spirits” senza briglie: infatti soltanto il 23,5% di questi campioni della tecnologia e del mercato si dice d’accordo con i princìpi della dottrina libertaria (lo Stato minimo che si occupa di difesa e sicurezza, il resto va lasciato nelle mani dei singoli), contro il 43,8% degli elettori democratici e il 62,5% di quelli repubblicani.

Tuttavia c’è un tema sul quale i signori dell’high-tech si differenziano profondamente dal resto della sinistra americana: la regolamentazione del mercato dei prodotti e in particolare del mondo del lavoro. L’82% di questi imprenditori ritiene per esempio che oggi sia troppo difficile licenziare un lavoratore e che il governo dovrebbe facilitare tale processo; il 74% di loro gradirebbe un ridimensionamento dell’influenza dei sindacati (rispetto al 18% dei donatori democratici e al 33% di tutti gli elettori democratici). Parliamo dunque del gruppo sociale che è maggiormente favorevole all’idea che il governo non debba regolamentare l’economia ma allo stesso tempo debba redistribuire ricchezza. Per usare le parole del New York Times, “la combinazione di punti di vista cari all’élite tecnologica è unico”.

Siamo forse di fronte a una riedizione americana e tecnologica del detto italico “cuore a sinistra e portafoglio a destra”? Gli studiosi di Stanford giurano di no. Non sarebbe soltanto il “self-interest” – interesse personale o egoismo, come si preferisce chiamarlo – a dettare le preferenze politiche dell’élite tecnologica. Da una parte perché non si spiegherebbe altrimenti la disponibilità dei componenti di questa stessa élite a essere tassati di più per finanziare forme di welfare universalistico. Dall’altra parte perché, stando ai questionari sottoposti, i capitalisti high-tech sono allergici alle regolamentazioni del mercato anche quando queste non riguardano settori di loro competenza diretta. Se non conta soltanto l’interesse personale, cosa c’è dietro queste convinzioni “molto conservatrici” di un gruppo altrimenti ultra-liberal? Per i politologi dell’ateneo californiano bisogna considerare che “individui che si sono auto-selezionati per diventare imprenditori avranno una predisposizione favorevole verso gli imprenditori” e inoltre occorre tenere conto della loro “esperienza diretta in quanto imprenditori”. In definitiva, valori ed esperienza sul campo sono la spiegazione della visione “più conservatrice” nel campo della regolamentazione.

Se queste sono le idee del Partito della Silicon Valley, si comprende meglio la faglia che separa il settore high-tech dall’attuale presidenza Trump. Ma le frizioni maggiori, fanno capire gli studiosi di Stanford nelle loro conclusioni, ci potrebbero essere in futuro proprio con l’establishment e con gli elettori della sinistra americana. Infatti l’influenza di Zuckerberg e soci sul Partito democratico è destinata a crescere. E di molto. Lo dimostrano alcuni dati messi in fila dagli autori dello studio. Nell’ultimo decennio, fra i 400 americani più ricchi, si è triplicata la quota di coloro che deve la propria ricchezza all’industria tecnologica. Già oggi la maggioranza dei dieci americani più facoltosi deve la sua fortuna all’industria tecnologica: Bill Gates (Microsoft), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook), Larry Ellison (Oracle), Larry Page e Sergey Brin (Google). D’ora in poi, secondo alcune analisi, dal settore high-tech emergerà lo stesso numero di milionari del settore finanziario. Poi c’è l’influenza diretta sulla società: basti dire che fra il 2013 e il 2015, la metà della crescita di posti di lavoro negli Stati Uniti è stata dovuta a imprese che operavano in appena quattro aree dei servizi digitali. Oppure ricordare che già adesso ogni americano spende in media un terzo della sua giornata (da sveglio) compulsando computer o smartphone.

A tutto ciò si aggiunga che proprio gli imprenditori high-tech sono considerati come i finanziatori del Partito democratico maggiormente in ascesa (secondi solo alla lobby ispanica). Tutti indizi che fanno pensare che la battaglia della Silicon Valley per i cuori e le menti del Partito democratico – cioè per un Partito liberal tradizionalmente legato ai sindacati e alla regolamentazione dello Stato in campo economico – non sarà indolore per la sinistra americana.

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