Nel profluvio di commenti sulla crisi spagnola in corso, di fronte a riflessioni da bar sport di presunti esperti che affiancano in maniera superficiale il referendum curdo a quello catalano per poi liquidare entrambi con una scrollata di spalle, al cospetto dei sensazionalisti da social network che ormai intravvedono una reincarnazione del dittatore Franco dietro un paio di celerini che semplicemente alzano di peso una manifestante, in questo panorama mediatico a volte sconfortante, stavolta va detto alto e forte: onore al Corriere della Sera! Il giornale della borghesia italiana – come lo chiamavano una volta – domenica ha pubblicato infatti l’intervento di due fra i massimi esperti in materia di indipendentismo contemporaneo, Alberto Alesina (Università di Harvard), in foto, ed Enrico Spolaore (Tufts University). I due economisti italiani, all’inizio degli anni 2000, pubblicarono il libro The Size of Nations (La misura delle nazioni) con la prestigiosa casa editrice del Mit di Boston. Le loro opinioni insomma saranno pure criticabili, ma quantomeno i due autori hanno elaborato tesi informate, empiricamente testate e che aiutano la comprensione di quel che sta accadendo in Spagna, tra pulsioni indipendentiste di Barcellona e reazioni centralizzatrice di Madrid.
Nel loro articolo di domenica scorsa sul Corriere della Sera, Alesina e Spolaore hanno sintetizzato alcune delle conclusioni di quel libro. Hanno ricordato per esempio che la nouvelle vague autonomista o indipendentista – in occidente e non solo – è strettamente collegata all’espansione della democrazia successiva al crollo del blocco sovietico. “In un mondo più democratico diventa sempre più difficile reprimere le preferenze di minoranze etniche, linguistiche e religiose e i governi centrali si vedono costretti a concedere maggiore autonomia, se non l’indipendenza”. Ma ci sono almeno altri due ragioni profonde dietro il rinnovato interesse per progetti autonomisti/indipendentisti. Il riferimento è ai “trattati” e alle “istituzioni” che “hanno facilitato la pace e il libero commercio”. “Questo è specialmente vero in Europa, dove la Nato ha ridotto i costi nazionali di difesa, mentre l’Unione europea ha eliminato tante barriere agli scambi economici tra i suoi membri, Ma questo ha anche eroso l’importanza dei mercati nazionali – hanno osservato Alesina e Spolaore – Ecco quindi la terza ragione che permette a paesi piccoli di prosperare. Il commercio internazionale riduce l’importanza di un grande mercato nazionale interno. Paesi anche piccoli possono commerciare liberamente con il resto del mondo. Di conseguenza, ampie aree di libero scambio e integrazione economica quali l’Unione europea rendono le secessioni regionali più attraenti”. Detto in altre parole: proprio l’integrazione economica e commerciale che la Spagna ha perseguito col resto del continente su input dell’Unione europea ha reso maggiormente plausibile e attraente il sogno indipendentista di 7 milioni e mezzo di catalani. In questo senso l’indipendentismo catalano è figlio dell’Unione europea.
Alesina e Spolaore, nel loro libro del 2003, aggiungono un dettaglio non da poco al ragionamento apparso sul Corriere della Sera. Scrivono che “negli ultimi decenni abbiamo assistito a un vasto processo di democratizzazione, di divisione di paesi e di integrazione economica crescente. Secondo la nostra analisi, non dovremmo stupirci per il fatto che questi tre fenomeni procedono di pari passo. (…) La nostra enfasi sulla relazione esistente fra integrazione economica e disintegrazione politica contrasta con le teorie ‘funzionaliste’ delle relazioni internazionali, le quali invece insistono sulla complementarità fra integrazione economica e integrazione politica. Secondo il funzionalismo classico, aumentare l’integrazione economica porterebbe a una maggiore integrazione politica sia a livello regionale sia a livello globale. Per esempio Mitrany (1966) teorizza che in un mondo economicamente integrato, i paesi avranno bisogno di delegare un numero maggiore di compiti e funzioni alle istituzioni internazionali, formando così unioni politiche ampie e sempre più centralizzate. Sulla stessa linea Haas (1958, 1964), il quale sostiene che un’integrazione economica crescente porterà a meccanismi di governo più ampi e centralizzati, e a una maggiore integrazione politica”. L’approccio funzionalista di Mitrany ispirò personalità come Jean Monnet e Robert Schuman, padri fondatori dell’attuale Unione europea, per i quali una cooperazione graduale tra gli Stati europei in settori limitati – il carbone e l’acciaio per esempio – avrebbe progressivamente portato allo svuotamento delle sovranità nazionali e alla formazione nel tempo di un super-Stato europeo (federale o meno che fosse).
Tuttavia, ricordano Alesina e Spolaore dopo aver studiato l’ondata autonomista/indipendentista contemporanea, se da una parte è vero che economie integrate a livello sovranazionale hanno bisogno di istituzioni sovranazionali che assicurino il funzionamento e l’apertura dei mercati, dall’altra parte rimane il fatto che “la centralizzazione politica o lo stretto coordinamento delle funzioni di governo non sono precondizioni necessarie per il funzionamento dell’economia internazionale”. Se l’integrazione economica tra Stati non ha come sbocco naturale l’integrazione politica tra gli stessi, e se addirittura l’integrazione economica rende più attraente la strada dell’indipendentismo nazionale, ecco spiegato perché il caso catalano – letto con le lenti di Alesina e Spolaore – è allo stesso tempo figlio del mercato unico europeo e pietra tombale per il sogno di un super Stato che aveva animato alcuni dei padri fondatori dell’Ue. Il che contribuisce a spiegare, forse, la timidezza della solitamente loquace Bruxelles di fronte agli scontri di piazza di Barcellona.