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Chi era Stephen Paddock, lo stragista di Las Vegas

Chi era Stephen Paddock? Dell’attentatore che ha ucciso 59 persone (ferendone oltre 500) domenica sera a Las Vegas si sanno diverse cose, ma manca il dettaglio fondamentale: quello che può dar ragione al gesto. La matrice. Come mai un ex contabile di sessantaquattro anni di Sun City, comunità di pensionati di Mesquite, Nevada, una ventina di chilometri lontano dalla Strip che ha insanguinato, ha aperto il fuoco sulla folla di un concerto country?

In mezzo una rivendicazione che sembra sgangherata, che è stata ridicolizzata, ma è un dato: ha parlato Amaq News, megafono propagandistico dello Stato islamico travestito da agenzia stampa. Lo ha fatto due volte: la prima ha chiamato Paddock “un soldato dello Stato islamico”, formula classica con cui ha intestato al Califfato molti attentati. Poi un altro lancio di agenzia spiegava che si era convertito all’Islam da poco, perché con tutta probabilità devono essersi resi conto anche gli uomini del Califfo che credere d’emblée che quell’americano tipico potesse essere un fanatico islamista è davvero complicato. Più tardi un comunicato più corposo uscito da un altro media, più ufficiale, dell’Isis ha dato anche il nome de guerre di Paddock: Abu Abd El Bar, “possa Dio accettarlo”, dice il testo califfale con la formula che si concede ai martiri.

In effetti Paddock è morto in azione: s’è suicidato dopo la strage. Aveva messo una telecamera sul corridoio della stanza, monitorava quello che stava succedendo, voleva evitare sorprese: e così avrà visto il team Swat della polizia appostarsi per il blitz, avrà voluto evitare di essere preso vivo. Le forze speciali non ci hanno messo molto nell’individuarlo, ma sono stati comunque minuti lunghissimi durante i quali ha potuto sparare da una posizione privilegiata su obiettivi inermi (segnalano i tecnici: tiro dall’alto su pavimento duro, ossia massimizzazione dell’effetto, con i proiettili che possono penetrare un corpo, uscire, rimbalzare sul pavimento e colpirne un altro). Aveva previsto tutto: era entrato portandosi quasi due dozzine di armi automatiche, migliaia di munizioni, due treppiedi da tiro, ottiche da cecchino, un martello per rompere il vetro sigillato della stanza. Aveva modificato alcune delle armi per renderle automatiche, più facili da usare su bersaglio grosso e diffuso. Aveva scelto la camera nel lato meglio esposto sul piazzale sottostante, dove si stava svolgendo il Route 91 Harvest festival.

La più grande strage nella storia degli Stati Uniti è avvenuta durante un festival di musica country, realtà tutta americana e poco conosciuta fuori dagli States, diventata “pubblicamente apolitica” (dichiarazione del cantautore Bobby Braddock sul Guardian) dopo che è stato eletto Donald Trump; sullo sfondo l’enigma culturale di artisti e fan: il conservatorismo iper-patriottico all’America First piace e si inquadra nel genere, ma cozzano con l’implicita rivendicazione di genuinità nazionalista gli sfarzi di Trump (c’è un interessante articolo di Federico Sardo di Rivista Studio sull’argomento). Il country piaceva anche a Paddock, frequentatore abituale delle sale da gioco cittadine.

“Il signor nessuno è diventato qualcuno comportandosi da terrorista” scrive Guido Olimpio sul CorSera: “Meticoloso, feroce, determinato”. Se davvero Paddock era un convertito che ha risposto agli appelli del Califfo, allora è stato un campione nel nascondersi (abile quanto è stato abile a celare la polveriera che s’è portato con sé). Se fosse vera la dichiarazione dell’Isis si aprirebbe uno scenario tremendo: il più importante e attivo degli Stati che combattono il terrorismo, il faro globale di questa lotta incessante, è stato colpito ancora una volta in uno dei suoi cuori pulsanti (colpire Las Vegas, luogo di perdizione, è da qualche mese che circola tra le uscite invasate che si leggono nei canali del Califfato). Oltretutto, dimostrerebbe che lo Stato islamico ha un’enorme capacità di infiltrarsi tra le debolezze del tessuto sociale: l’attentato sommerebbe infatti il tema delicatissimo del controllo delle armi (il Nevada è uno dei più blandi su questo, e non dà limiti a tipologie, quantità, munizioni) a quello, appunto, del terrorismo: un incubo che aprirebbe una ferita su un dibattito infinito.

Ma se stesse mentendo, invece, significherebbe che, così come la dimensione statuale sotto i colpi dei caccia americani e dei partner locali, un altro elemento che ha fatto unica l’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi è in fase di smottamento: l’impianto media. Il proselitismo che l’Isis si è creato intorno viene sia dalle capacità di conquista dimostrate negli anni scorsi in Siria e in Iraq (anche per il lassismo delle forze locali), che dall’enorme propaganda messa in circolazione. Ma la propaganda funziona soltanto se ha riscontri reali – quelle conquiste militari, o i vari attacchi all’Occidente. Se invece lo Stato islamico avesse ceduto a un altro elemento ormai consolidato e scoperto del tessuto sociale globale, le fake news? Un gruppo di cialtroni che si intesta azioni che non ha compiuto può continuare a creare fascinazione? O se è stato un errore? Possibile che le pesanti perdite subite abbiano comportato sostituzioni anche nei posti di lavoro tra i media, e che i rimpiazzi non siano all’altezza? (Da registrare, negli ultimi mesi, due precedenti, a Manila e a Parigi, di rivendicazioni su cose per cui l’Isis non era responsabile).

Saranno le indagini a chiarire la confusione dei dati per ora a disposizione, partendo da un punto chiave: Stephen Paddock, figlio di un ex most-wanted dell’Fbi (rapinatore di banche), che il fratello e i vicini descrivono come un non-violento il classico tipo di cui non ti accorgi. Profilo che si può associare sia allo stragista che al martire califfale, anche se l’età dell’uomo è piuttosto alta rispetto ai precedenti.


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