Tra meno di due mesi, le principali agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor, Finch, Dbrs, e Scope ratings, per non citare che le maggiori) formuleranno il loro giudizio sull’andamento dell’economia italiana. Il giudizio verrà influenzato dall’evoluzione politica (delibera sul Documento di Economia e Finanza, preparazione e varo della legge di bilancio, finalizzazione della legge elettorale, aggregazione e compattamenti tra soggetti politici).
Ci sono, però, rischi non solamente politici. In primo luogo, occorre chiedersi sino a quando alcune categorie di titoli di Stato italiani potranno restare negativi, alleggerendo il peso del debito pubblico e stimolando l’economia). Ne sono in circolazione 115 miliardi, un terzo del totale dell’eurozona. Le banche, che ne sono i principali detentori, sono anche i soggetti più a rischio; ma per loro sbarazzarsene per prendere titoli più redditizi (senza aumentarne la rischiosità) non è un’impresa facile. Lo stanno già facendo le famiglie italiane, ma a poco a poco e senza farsi notare (se non nei bollettini della Banca d’Italia, solitamente letti unicamente da specialisti). Sino a quando, però, si potrà contare su tassi negativi o rasoterra? In America è in atto da circa un semestre una politica di leggero ma costante rialzo dei tassi. In Europa, in particolare dopo le elezioni tedesche, il tapering off (ossia lo smantellamento) del Quantitative Easing (Q.E) sembra già iniziato. Con le conseguenze sui tassi d’interesse che si possono prevedere.
Ciò non potrà non avere implicazioni sul debito pubblico. Dubito che la strada del rientro graduale a piccolissimi tassi potrò essere perseguita se i tassi aumentano. La quasi impercettibile riduzione del rapporto debito/Pil segnata nei preconsuntivi 2017 è in gran parte il risultato di 115 miliardi di euro dormienti, che perdono leggermente in valore ogni settimana. Un aumento dei tassi causerebbe loro (e soprattutto i loro detentori) un risveglio con impatti significativi sullo stock di debito pubblico.
C’è poi un terzo elemento sul quale la politica ha poca influenza e la politica italiana non ne ha alcuna: i cambi. Lo sottolineano nell’ultimo fascicolo del periodico Economic Modelling (Vol 66, pp. 112-120), tre economisti greci, Dimitris Kenourgois, Dimitrios I. Dimitriu, Theodore Simon, nel saggio “Financial Crises, Exchange Rate Linkage and Uncovered Interest Rate Parity. Evidence from G7” (Crisi finanziarie, nessi tra i cambi e parità di tassi di cambio allo scoperto. Il caso del G7). I greci di cambi se ne intendono da millenni.
È un saggio breve ma molto tecnico che esamina il nesso tra i cambi delle maggiori monete durante la crisi finanziaria internazionale e quella del debito sovrano nell’eurozona. La conclusione è che il dollaro canadese e la sterlina britannica sono state influenzate solo dal dollaro USA grazie alla loro stretta integrazione. Lo yen è stato l’unico ‘porto di rifugio’, le fluttuazioni dell’euro, invece, sono state contenute specialmente a ragione degli interventi della Bce e del sistema europeo di banche centrali. Ove ciò cessasse potrebbe iniziare “un periodo turbolento e politiche monetaria non cooperative”. Con ramificazioni forti sui tassi d’interesse.