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Franceschini, Tempi di Mainetti, i film italiani e il “rattuso liberista”

Valter e Paola Manetti (2013)

Primi commenti – di segno diamentralmente opposto – al decreto che impone di dare maggiore spazio al cinema italiano sui principali canali Tv del nostro Paese. La riforma – che porta la firma del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini – è stata varata ufficialmente qualche giorno fa dal Consiglio dei Ministri. E già fioccano gli editoriali al fulmicotone da parte di chi si dichiara favorevole oppure contrario al provvedimento. Anche perché la novità impatterà non poco sul piccolo schermo e sul modo in cui le varie reti nazionali organizzano la loro produzione e strutturano i rispettivi palinsesti.

LE NOVITA’ DELLA RIFORMA FRANCESCHINI

La riforma impone alle televisioni nazionali di aumentare la quota di produzioni italiane da mettere in onda in prima serata quando, ovviamente, le percentuali di pubblico sono maggiori. Le emittenti private dovranno trasmettere almeno un film o una fiction italiana a settimana per ogni canale, mentre la Rai due. Allo stesso tempo aumentano anche gli investimenti che i vari network televisivi saranno tenuti a effettuare in produzioni di casa nostra o made in Europe: le televisioni private dovranno gradualmente passare dal 10 al 15% mentre la Tv pubblica dal 15 al 20. Lo stesso avverrà anche per la quota minima di ricavi da destinare alle opere cinematografiche italiane: per le private passerà dal 3,2 al 4,5% mentre per viale Mazzini dal 3,6 al 5.

LA DIFESA DI GIULI

Il provvedimento sta facendo discutere non poco anche il mondo dei giornali. Che si sta in qualche modo dividendo. La difesa più accorata della riforma Franceschini è arrivata da Alessandro Giuli – il direttore della rivista Tempi – che in un editoriale al vetriolo datato 4 ottobre (consultabile qui) se l’è presa con i colleghi che in queste ore hanno criticato il decreto: “Peggio del peggio è l’aggressione sputacchiante mossa da varie latitudini giornalistiche contro la riforma cinetelevisiva promossa dal ministro della Cultura Dario Franceschini. Materia ancora in via di modellamento, ma che nella sostanza vorrebbe premiare per legge la manifattura intellettuale italiana, dotando d’un degno palco di rappresentanza in prima serata le produzioni cinematografiche nazionali ed europee. Opzione sindacabile, naturalmente, ma in linea di principio sana“. Ma a chi avrà voluto riferirsi Giuli quando ha parlato di “aggressione sputacchiante”?

L’AFFONDO CONTRO “I RATTUSI LIBERISTI”

Nella parte finale dell’articolo Giuli ha parlato di “vocalizzazioni americanomorfe, americanomorfiniche e anti-franceschiniane del così detto rattuso liberista” – il giornalista da lui mai nominato accusato di aver scritto apertamente contro la riforma – e poi ha sentenziato: “Nella maggior parte dei casi il nostro infelice non ebbe mai il coraggio di confessare alla sua mamma che i soldini per fare in giro il rattuso liberista glieli passa il contributo pubblico all’editoria“. E chi è il giornalista che più di tutti ha criticato il provvedimento? E che per di più lavora in un quotidiano che percepisce i contributi pubblici?

L’EDITORIALE DI CERASA

Tra le voci più dure che si sono levate in questi giorni contro il decreto c’è quella del direttore del Foglio Claudio Cerasa. Il successore di Giuliano Ferrarain un editoriale pubblicato sul Foglio cartaceo il 3 ottobre,- non ha lesinato critiche alla riforma, fin dal titolo “L’Italia e il tabù della politica al cinema”. E soprattutto dal sommario: “Perché l’idea di ritrovarci in prima serata con un numero maggiore di film ispirati più a Mafia Capitale che a Homeland è un dramma per la nostra democrazia e un grande assist al paese dei Tafazzi“. Un riferimento agli Stati Uniti e alle serie americane (ricordate “le vocalizzazioni americanomorfe e americanomorfiche” di cui ha parlato Giuli? – che è tornato di frequente nell’articolo di Cerasa. Il quale ha poi anche scritto: “Un paese che ogni giorno deve fare i conti con le stupidaggini del partito anti casta avrebbe il diritto ad assorbire meno fotogrammi di Mafia Capitale, e meno derivati delle Suburra e Associati, e più fotogrammi di una serie tv a scelta tra Homeland, Veep, Scandal, West wing, House of cards, Billions o Good Wife“. Per poi concludere: “Chiunque abbia avuto la possibilità di mettere a confronto negli ultimi tempi una qualsiasi puntata di una serie tv americana con una qualsiasi puntata di uno sceneggiato italiano non può non essersi accorto che, quando la politica finisce al centro della narrazione, in Italia scatta un riflesso pavloviano che non si trova facilmente in America“.

UNA GRANDE FAMIGLIA

Peraltro è da segnalare come Giuli abbia lavorato a lungo al Foglio prima di diventare il direttore di Tempi. Che, per inciso, appartiene allo stesso imprenditore oggi proprietario del quotidiano fondato da Ferrara. Si tratta dell’immobiliarista Valter Mainetti (nella foto con la moglie) del gruppo Sorgente il cui figlio – Gabriele – è un regista sempre più stimato nel panorama cinematografico italiano come dimostra il successo di Lo chiamvano Jeeg Robot. Impossibile dunque ritenere, alla luce di tutto ciò, che Giuli ce l’avesse con il suo ex collega ed ex direttore del Foglio. O forse no?



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