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Youtube, Facebook, Google e le fake news su Las Vegas

Campeggiano ancora su Youtube le video fandonie di chi vorrebbe dimostrare che il massacro di domenica 1 ottobre a Las Vegas non sia mai avvenuto, o che i media mainstream non abbiano raccontato la verità su quello che è accaduto durante il concerto country sotto al Mandalay Bay sul quale Stephen Paddock ha aperto il fuoco all’impazzata per ragioni ancora indefinite, uccidendo 59 persone e ferendone oltre 500. Ma d’altronde, ci sono ancora quelli sul 9/11 come inside job.

La vicenda di Las Vegas è uno squarcio enorme sulla credibilità dei social network, che nonostante da tempo sono sotto pressione perché devono provvedere alla situazione, non riescono a far argine (nota: c’è un periodo esatto in cui tutto è venuto fuori più chiaramente, ed è quello delle elezioni americane durante il quale sono state diffuse le peggiori bufale sul conto di Hillary Clinton e i social network stessi hanno fatto da cassa di risonanza anche per un piano di interferenza russo basato sull’alterare la percezione della realtà tra gli americani; è stata la realtà stesso, poi, a fare il resto del lavoro, e si ricorderà che da lì nasce quel “fake news” come parola dell’anno per l’Oxford Dictionary).

Dai minuti dopo l’attacco, sia Facebook che Google hanno dato spazio a notizie sgangherate e completamente inventate in cui si scriveva che il gesto di Las Vegas era stato fatto da un estremista della sinistra statunitense, da un hater del presidente Donald Trump, con articoli in cui veniva riportato un nome falso dell’aggressore. Questo genere di pezzi giornalistici sono stati diffusi dagli algoritmi per diverse ore, messi in alto insieme agli articoli delle testate più autorevoli, e dunque letti da centinaia di migliaia di persone. Per esempio, in questo buco dei sistemi di verifica delle news è stato messo sotto il safety check di Facebook (il sistema per smascherare le bufale) un articolo di Gateway Pundit, tempio online degli schiantati di destra americani (sito complottista, razzista, sessita, violento) in cui lo sparatore era descritto come un membro di un fantomatico “Esercito anti-Trump” e fan della giornalista di MSNBC Rachel Maddow (bersaglio costante delle invettive di certa stampa). Altra roba del genere usciva da 4chan, forum noto per godere degli stessi aggettivi usati poco sopra per Gateway Pundit.

Il problema è rilevante: Facebook e Google hanno fornito spiegazioni arrancate e detto che i contenuti sono stati online per poco tempo (tuttavia si fa notare che il problema è pure legato a un decisione di Google di tre anni fa di inserire nella sezione notizie anche siti che non sono registrati come testate giornalistiche). Facebook è sotto pressione dopo aver ammesso che diverse inserzioni pubblicitarie sono state comprate lo scorso anno, durante le presidenziali, da troll russi e rientravano nel piano di diffusione di contenuti divisivi, polarizzanti che avrebbero promosso percezioni caotiche della situazione politico-sociale tra gli americani; ora FB ha consegnato le carte agli inquirenti che stanno facendo luce sul Russiagate, dopo essere stato restio per mesi, anche soltanto nell’ammettere quanto successo. Youtube (di proprietà Google) ha fatto sapere che non intende togliere i video cospirazionisti che raccontano una contro-verità – infondata, chiaramente – sui fatti di Las Vegas, perché non violano la propria politica: e così quelle immagini restano ancora a fianco ai servizi dei telegiornali americani.

“Cosa spinge la gente a disseminare intenzionalmente bufale su stragisti che non lo sono e vittime inesistenti? ” s’è chiesta Anna Momigliano su Rivista Studio. Risposta: ci sono motivazioni politiche (chi ha addossato al colpa alla sinistra, per esempio), ed economiche (Momigliano cita il caso di “Everipedia” per esempio), poi c’è una componente (di miseria) umana: “La gente fa cose davvero assurde pur di avere l’illusione di contare qualcosa, e non ha grandi remore a sfruttare le disgrazie altrui come scorciatoia” (“La tentazione di dirottare su di noi l’attenzione rivolta al dolore altrui è più diffusa di quanto non si tenderebbe a pensare”).

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