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Così Bannon dichiara guerra ai Repubblicani

Stephen Bannon - Youtube

Sentite queste parole: “C’è una coalizione che si riunisce per sfidare ogni repubblicano in vista di rielezione, tranne Ted Cruz“, c’è una squadra che “sta spendendo una tonnellata di tempo con le organizzazioni di base per assicurarsi che [i nostri] candidati siano completamente accolti”, e dunque “stiamo dichiarando guerra all’establishment repubblicano che non riprende l’agenda che Donald Trump intende affrontare. E questo programma sappiamo che supporterà gli uomini e le donne che lavorano in questo paese”. Le ha dette Steven Bannon durante un’intervista fattagli da Sean Hannity su Fox News.

BANNON, DOVE E PERCHÉ

Bannon è stato lo stratega politico del presidente Trump. Da quando ha ricevuto l’incarico durante la campagna, la corsa elettorale è svoltata fino alla vittoria. Poi è rimasto dentro alla Casa Bianca, assiduo dello Studio Ovale, finché un gruppo di normalizzatori interni – figure dell’amministrazione e consiglieri con visioni più vicine a quelle storiche dei Repubblicani, all’establishment come direbbe Bannon – non l’ha sbattuto fuori. Poi è tornato a Bretibart, media group che aveva fondato anni fa da cui ha promosso le visioni trumpiane prima che Trump arrivasse sulla scena (proto-trampiano, si può dire). Ora Bannon s’è ripreso il ruolo di influencer, di stratega e di vettore delle traiettorie politiche americane: non s’è arroccato contro il presidente che ha firmato il suo licenziamento, ma anzi s’è convinto ancora di più che occorre lavorare per non lasciare Trump da solo in mano al partito (e a quei normalizzatori che hanno fatto saltare la sua testa).

IL PIANO

Bannon ha una visione molto aggressiva della politica, è un ultrà del nazionalismo (anche un populista per dirla in termini più vicini al mondo politico italiano), e ha un approccio rivoluzionario. Ha un nemico dichiarato: l’establishment del Partito Repubblicano, e infatti da Hannity – che per dovere di contestualizzazione è il giornalista preferito da Trump – ha detto che il suo attuale obiettivo è quello di sconfiggere tutti i candidati repubblicani del partito in vista della corsa al Congresso nelle elezioni di metà mandato (appuntamento: novembre 2018, ma è ovviamente un progetto irraggiungibile) e poi – poi! – battere i democratici. Ossia, il piano è: prima rivoluzionare il partito rendendo più forti le figure più vicine a Trump, più allineate su quel modo (populista, nazionalista, situazionista, diamogli la declinazione che vogliamo) di vedere le cose. Poi, se possibile, con quelli sconfiggere i contendenti Dem e ottenere i seggi alle camere. Questo secondo aspetto appare quasi sfumato, relativo, rispetto all’importanza che Bannon dà alla sfida interna. E dev’esserci di certo anche qualcosa di personale, perché il partito – in un nome, il leader più alto in grado, il senatore Mitch McConnell – lo detesta tanto quanto lui detesta i meccanismi impaludati del sistema politico consolidato (“Dobbiamo tagliare l’ossigeno a Mitch McConnell. Il bene più grande di Mitch McConnell è il denaro” dice sulla Fox lo stratega).

IL TRUMPISMO OLTRE TRUMP

Dietro c’è la missione di strappare uomini a quella maggioranza congressuale, soprattuto quella risicata al Senato, che lui, il presidente, e il folto gruppo di elettori trumpiani (o bannoniani) convinti vede come inetta, incapace, inconcludente (un esempio? Sono anni che cercano di abolire la riforma sanitaria della presidenza Obama, e ancora non ci sono riusciti, così è stato Trump, dopo tre tentativi miseramente falliti in questi primi nove mesi di legislazione, a dover dare una sferzata con un ordine esecutivo che ha il compito di iniziare a smontare piano piano il mercato assicurativo che l’Obamacare ha creato). Lo stratega del popolo, che lavora per colui che s’è auto-definito il presidente del popolo. C’è un punto di lancio di questa campagna (di cui da un po’ erano noti gli estremi): la vittoria alle suppletive dell’Alabama del candidato di rottura Roy Moore. In quell’occasione Trump diede il suo sostegno poco convinto allo sfidante, l’uomo del partito Luther Strange, ma dopo la vittoria di Moore il presidente s’è sbrigato a eliminare i tweet pubblici con cui cercava, scettico, di lanciare la candidatura che più piaceva al Gop.



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