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Le milizie curdo-arabe alleate degli Usa dichiarano la caduta di Raqqa. Tutti i dettagli

totalitarismo, Baghdadi

La capitale dello Stato islamico in Siria, Raqqa, la città per cui il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi è diventato famoso agli occhi del mondo (le esecuzioni, le foto dei bambini soldato, le immagini di un capoluogo che amministrava una realtà statuale guidata da una giunta militarista di fanatici religiosi), è caduta. I miliziani curdo-arabi della Syrian Democratic Force l’hanno riconquistata, con l’ausilio imprescindibile delle forze della Coalizione internazionale a guida americana che nell’agosto di tre anni fa ha iniziato la propria guerra al Califfato.

Ci saranno ulteriori sviluppi (sacche di resistenza permangono) e si aspetta una più solida dichiarazione (per esempio quella del comando americano che segue le operazioni, il CentCom), ma da giorni si attendevano le parole dette oggi, martedì 17 ottobre, da Talal Sello, il portavoce delle Sdf: Raqqa è libera. Lo Stato islamico, come visto in altre aree (per esempio Mosul, l’altra grande capitale, quella più ideologica e dai legami ancestrali, mentre Raqqa era la base operativa del gruppo) aveva avviato una ritirata consapevole: ha mosso i migliori combattenti stranieri fuori città, ha spostato i capi (Baghdadi in testa), in zone più sicure.

La battaglia vera e propria era iniziata cinque mesi fa, dopo che le forze curdo-arabe, grazie alla copertura aerea americana e alla presenza di forze speciali statunitensi al loro fianco, avevano mosso da nord per stringere d’assedio la città. Lo scacco di finale dell’immensa campagna di liberazione dell’area del nord siriano (oltre 8000 chilometri quadrati), che nel 2014 era stata quella più infestata dai baghdadisti.

La caduta di Raqqa è un tassello fondamentale, decisivo per certi versi: Raqqa non è solo la base operativa, ma è stato anche il magnete che ha portato migliaia di combattenti stranieri ad unirsi all’Isis, raccogliendo l’invito del Califfo al jihad. Venuto meno il simbolo, potrebbe essere intaccato anche il proselitismo, l’effetto mediatico della forza di Baghdadi, quello che ha reso grande la sua organizzazione.

Ora la bandiera gialla delle Ypg (la milizia curda maggioritaria nella Sdf) sventola alta nello stadio di Raqqa, teatro delle esecuzioni pubbliche diffuse dai media califfali – che hanno infiammato i cuori dei fanatici in giro per il mondo – molte condotte negli ultimi mesi come rappresaglia contro spie o presunte tali, nell’ultima disperata reazione alla caduta imminente. La sconfitta è in effetti anche frutto di qualche passaggio di informazioni dall’interno, di qualche pentito, disertore: anche grazie a loro gli americani hanno raccolto le informazioni necessarie alla campagna di eliminazione della leadership del Califfato.

In Siria ormai restano in mano al Califfo soltanto poche parti di territorio, come Deir Ezzor. La zona è quella petrolifera orientale oggetto in queste settimana di una campagna governativa (guidata dai russi, che ora accelerano nel chiudere la partita). Deir Ezzor cadrà: da lì si apre la porta del corridoio dell’Eufrate, la fascia che costeggia il fiume e sbocca in Iraq dove pare siano rifugiati i vertici dell’IS.

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