“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” ha scritto Bertolt Brecht. Non posso farci nulla, ma la lettura de “La banalità del male” mi ha portato a riflettere su di un evento di cui in queste ore si parla con maggiore interesse di quello dedicato a problemi ben più seri: i misfatti sessuali del “mostro” Harvey Weinstein (in foto), per il quale non passa giorno senza che non venga cacciato o espulso da qualche associazione, ente o impresa di cui era stimato aderente. Eppure, se intendono agire in nome di “un significato morale superiore” le vittime del sistema “me la dai o scendi” corrono soltanto il rischio di ritornare a casa a piedi.
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Sto leggendo “La banalità del male” il saggio di Hannah Arendt sul nazismo. La filosofa tedesca prende le mosse dal processo a Otto Adolf Eichmann (iniziato l’11 aprile 1961) dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme (che Arendt seguì come inviata del ‘’New Yorker’’) per tracciare un quadro delle sterminio del popolo ebraico in Europa, attraverso “la soluzione finale” attuata dal regime nazista (per realizzare la quale Eichmann organizzò la selezione, la distribuzione e il trasferimento degli ebrei nei campi del martirio). Il criminale nazista fu poi condannato a morte e giustiziato, ma gli fu garantito un processo equo e corretto (non un atto di vendetta come quello a cui in Italia è stato sottoposto Eric Priebke). Il filo del ragionamento della scrittrice si muove lungo degli interrogativi inquietanti (che sono, poi, alla base del complesso di colpa del popolo tedesco, almeno di quelle generazioni che uscirono dalla tragedia in cui furono travolti e protagonisti): fino a che punto esiste una responsabilità individuale nel contesto di un sistema e di un ordinamento criminali, quando le persone possono sottrarsi ai suoi misfatti soltanto mettendo a repentaglio la propria vita e la sicurezza della propria famiglia? Fino a che punto si possono affermare i principi del diritto quando la legalità (intesa come conformità alla legge) è intessuta di delitti? A questo proposito, nel libro, viene ricordata la testimonianza di un medico della Wehrmacht, Peter Bamm, un militare, il quale ammette di aver assistito, senza fare nulla, ad uno dei tanti massacri compiuti sul fronte russo. E aggiunge: “Chiunque avesse protestato sul serio o avesse fatto qualcosa contro le unità addette allo sterminio sarebbe stato arrestato entro 24 ore e sarebbe scomparso’’. In sostanza, neppure la morte, il sacrificio sarebbero serviti, perché “la dittatura fa scomparire i suoi avversari di nascosto, nell’anonimo”. Ciò vuol dire – secondo il medico – che il sacrificio sarebbe stato privo di senso. “Nessuno di noi – conclude – aveva convinzioni così profonde da addossarsi un sacrificio praticamente inutile in nome di un “significato morale superiore”. Arendt si rende conto di questa grande difficoltà, ma sostiene che “i vuoti d’oblio non esistono … Qualcuno resterà sempre in vita per raccontare”. Non vi può essere rettitudine, secondo la filosofa, se manca un “significato morale superiore”.
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Giorgio Napolitano ha dichiarato, a proposito del voto sulla mozione anti-Visco, che non aveva tempo di occuparsi di cose deplorevoli. Chissà se si è pentito di aver favorito la “prise du pouvoir’’ del capitano di ventura fiorentino e di averne appoggiato le riforme costituzionali ed elettorali? Enrico Letta avrebbe avuto uno stile diverso, non avrebbe inseguito il populismo sul suo terreno e soprattutto non avrebbe preso a calci tutte le istituzioni, fino a diventare inaffidabile sullo scenario europeo.