Nell’immaginario collettivo degli italiani, Caporetto è la disfatta per antonomasia. Non una semplice sconfitta, ma la rotta, la catastrofe che scuote dalle fondamenta l’edificio della nazione e ne mette a repentaglio la sopravvivenza.
Nel mezzo secolo o poco più della sua storia, l’Italia unita aveva conosciuto altre pesanti sconfitte militari: quella di Custoza e quella navale di Lissa, durante la terza guerra d’indipendenza che aveva portato in dono l’annessione del Veneto e di buona parte del Friuli solo in virtù delle vittorie prussiane contro l’Austria – oppure la sconfitta di Adua, che aveva posto fine alle velleità di espansione coloniale in Africa orientale. Lo sfondamento austro-tedesco a Caporetto, iniziato il 24 ottobre 1917, assume tuttavia dimensioni incomparabilmente maggiori, e sono proprio la vastità del territorio e la quantità delle vite umane coinvolte ad aver inciso la rotta nella memoria nazionale (e il vocabolario italiano si è arricchito di una nuova parola).
Nel centenario degli eventi, questo libro ricostruisce, attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro impatto sull’opinione pubblica. Prima ancora, ci invita a rivivere da vicino la drammatica esperienza della Prima guerra mondiale sul fronte italiano e sollecita una nuova riflessione, con l’apporto degli storici, sulle cause della disfatta. Perché allora, se di disfatta si tratta, il titolo del volume è “A Caporetto abbiamo vinto?”. Perché in questi cento anni la rotta di Caporetto ha suscitato una serie di interpretazioni, polemiche, censure, revisioni che ne hanno deviato e stravolto il significato. Gli scambi di accuse che divampano quando ancora non si è arrestata l’offensiva nemica si attenua – no con l’euforia per la vittoria dell’autunno 1918, ma riprendono vigore fin dal 1919: la fine della censura di guerra consente a molti di raccontare liberamente la propria versione degli avvenimenti a cui hanno partecipato, e la commissione d’inchiesta “sul ripiegamento dall’Isonzo al Piave”, istituita nel gennaio 1918, pubblica le sue conclusioni, che attribuiscono ad alcuni generali – primo fra tutti il capo di Stato maggiore Luigi Cadorna – la responsabilità dell’accaduto. Cosa succede, però, quando Mussolini prende il potere? Il fascismo si era presentato, fin dagli albori, come il partito “dell’Italia di Vittorio Veneto” e degli ex combattenti: la Grande guerra è il suo mito di fondazione e, in un’epopea nazionale, non può trovare spazio una disfatta che era stata da più parti presentata come segno di un vizio di fondo nel carattere degli italiani.
Così, nel 1924, Mussolini nomina contemporaneamente “marescialli d’Italia” sia Armando Diaz, il generale della vittoria, sia Luigi Cadorna, il “dittatore” della guerra italiana, l’artefice delle “spallate” sull’Isonzo che avevano provocato centinaia di migliaia di morti per la conquista di pochi chilometri di territorio, il supremo responsabile dell’esercito al momento di Caporetto. Con questa sorta di risarcimento nei confronti di Cadorna – prima rimosso dal comando, poi chiamato in causa dalla commissione d’inchiesta e più volte attaccato sul “Popolo d’Italia”, dalle agenzie di stampa vicine al governo e dallo stesso Mussolini – il regime vuole seppellire il ricordo di Caporetto. Scompaiono la rotta e lo sbandamento di centinaia di migliaia di soldati; si recupera invece l’idea della “ritirata strategica” sul Piave, quasi fosse una scelta volontaria per meglio resistere alle ultime sfuriate nemiche. Se a Caporetto non abbiamo vinto, grazie a Caporetto avremmo comunque posto le basi per la vittoria dell’autunno 1918.
Paradossalmente, in questo travisamento provvidenzialistico della realtà è racchiusa una punta di verità. Potremmo infatti dire che occorreva una disfatta come quella di Caporetto per liberare l’Italia dalla dittatura di Cadorna, arrivare a una riorganizzazione sotto la guida del generale Diaz, risparmiare ai soldati inutili assalti, assicurare riposi e avvicendamenti. Fu tutto questo che rese possibile la vittoria. Ed è per questo che sulla figura di Cadorna e sul suo posto nella storia e nella memoria degli italiani dovremo tornare nelle conclusioni di questo volume.