Rivalutazione automatica delle pensioni: i “giudici delle leggi” della Corte Costituzionale non avrebbero potuto decidere altrimenti, a meno di non sconfessare la sentenza n.30 del 2015, il provvedimento (discutibile) che aveva individuato dei profili di incostituzionalità nella norma contenuta nel comma 25 del decreto Salva Italia che, alla fine del 2011, bloccò la perequazione per le pensioni d’importo superiore a 3 volte il minimo per gli anni 2012 e 2013.
In sostanza rimase operante l’indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013), mentre le pensioni di importo superiore a 3 volte il minimo non ricevevano alcuna rivalutazione. Il ghoverno Renzi corse ai ripari con il d.l. n. 65/2015 (convertito dalla l. n. 109/2015), emanato in seguito alla sentenza della Corte costituzionale riformulando le regole come descritto nella seguente scheda:
SCHEDA
Per gli anni 2012 e 2013:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 40% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 20% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 10% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per gli anni 2014 e 2015:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 8% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 4% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 2% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per il 2016:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 20% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 10% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 5% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre sei volte il minimo.
A partire dal 2017 era previsto il ripristino del normale sistema di indicizzazione, ma la legge di bilancio 2016 ha prorogato il regime provvisorio in vigore nel 2015 a tutto il 2018, allo scopo – è bene ricordarlo – di dare copertura alle modifiche dell’Opzione donna.
È appunto sul decreto n.65/2015 che si è pronunciato il Collegio (si dice attraverso un consenso ampio e responsabile) riconoscendone la legittimità. Abbiamo già anticipato che non poteva esserci un esito diverso e non solo per l’onere finanziario che una sentenza diversa avrebbe avuto, producendo un vero e proprio tsumani nei conti pubblici. Questa tesi (la Corte salva apposta il Governo) viene avvalorata dai giornali e dai talk show sfasciacarrozze, arrivando persino a sostenere che così si sono sacrificati i diritti dei pensionati. La sentenza dello scorso 25 ottobre è corretta anche in punto di diritto.
Basta richiamare il dispositivo della sentenza n.30/2015, nel passaggio cruciale: la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che “In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”.
Ciò significa che il comma 25 non venne cassato nella sua interezza (nell’alinea seguente della sentenza i “giudici delle leggi” dichiararono inammissibile un ricorso in tal senso). Ad interpretare correttamente le motivazioni della sentenza, la Corte non giudicò illegittimo l’intervento in sé (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto la giurisprudenza in materia), ma i suoi criteri e modalità.
È bene ricordare, infatti, che nella Legge Finanziaria per il 2008 il governo Prodi, nel quadro dell’attuazione del Protocollo sul Welfare del 2007, tagliò per un anno la perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore ad otto volte il minimo (allora circa 3,5mila euro mensili lordi), per l’ammontare di 1,4 miliardi, al solo scopo di compensare la correzione dello ‘’scalone’’ introdotto nella legge Maroni. Vennero sollevati (peraltro dalle stesse associazioni di dirigenti che hanno presentato anche questi ultimi) dei ricorsi che la Consulta bocciò.
Nel 2015, ad avviso della Corte, il caso del 2011 presentava profili differenti, perché la misura contenuta nel decreto Salva Italia interveniva – in modo permanente – su trattamenti medio-bassi, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza). Risibile, poi, la considerazione per cui non sarebbe stato sufficientemente motivato il provvedimento del Governo Monti con riferimento “alla contingente situazione finanziaria” come se nel Palazzo della Consulta non ricordassero più che, nel novembre 2011, l’Italia, sull’orlo della bancarotta.
Tutto ciò premesso, il governo reagì con un provvedimento d’urgenza, rimodulò il taglio della rivalutazione automatica (col decreto n.65 furono inclusi nell’esonero altri 2 milioni di pensionati, così, in tutto, i “salvati” salirono a 12 milioni su 16 milioni di soggetti interessati) come abbiamo riportato nella scheda. Crediamo che la Consulta, dovendo pronunciarsi ex novo, non avrebbe potuto non riconoscere più equo, e quindi ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, il nuovo intervento “riparatore”.
Se così non fosse stato, a prescindere dagli effetti finanziari, la Corte Costituzionale avrebbe travalicato nuovamente il proprio ruolo istituzionale, pronunciandosi su di una questione squisitamente politica come è il criterio dell’adeguatezza delle prestazioni previdenziali indicato dall’art. 38 della Carta. Il contenuto dei diritti sociali riconosciuti ai cittadini e ai lavoratori non può prescindere dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica.
Purtroppo le buone notizie provenienti dal Palazzo della Consulta sono state turbate dalla scivolata demagogica del gruppo dirigente del Pd sul “blocco” dell’adeguamento dell’età pensionabile all’attesa di vita, dopo che l’Istat ne aveva indicato i significativi incrementi. E sappiamo bene come questo Parlamento sia sempre pronto, purtroppo, ad assecondare i progetti avvelenati di demagogia.