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Il lessico del Pci: centottanta parole per non dimenticare

C’era una volta il Pci. Era il partito degli operai e dei ceti medi produttivi. Delle feste dell’Unità e di mastodontici riti collettivi. Delle epurazioni e del centralismo democratico. Del sol dell’avvenire e del realismo politico. Delle élite intellettuali e delle masse lavoratrici. Era il partito fedele a Mosca ma con profonde radici nella società italiana. Custode della Costituzione e vittima del fattore K.  Era il partito del compromesso storico e della questione morale.Della fermezza contro il terrorismo e dell’alternativa alla Dc. C’era una volta il Pci partito di lotta e di governo, insomma,  secondo il celebre ossimoro di Enrico Berlinguer (ma la cui paternità risale probabilmente a Gianni Cervetti).

Quando Giuliano Ferrara lo lasciò, scrisse Ai comunisti. Lettere da un traditore (Laterza, 1991). Pagine aspre: “Abbiamo creduto con forza talvolta primitiva, come soltanto ai peccatori e ai cattivi è concesso, e tanto più abbiamo ansimato, arrancato appresso alle bandiere, quanto più assurdo e misterioso ci è parso il significato dei nostri simboli, delle nostre litanie. Falci, martelli, stelle, incudini, alti forni, silos, capannoni e catene di montaggio, cuspidi e iconostasi di rito greco, mausolei e reliquie, fiori rossi fioriti in petto, baschi e distintivi: vale tre soldi il trovarobato della nostra antica devozione. E noi siamo i primi a saperlo”.

Dodici anni dopo, Emanuele Macaluso in 50 anni nel Pci (Rubbettino, 2003) sostenne che nelle lettere di Ferrara c’era un pezzo di verità, ma non la verità: “Il Pci fece politica, azione sociale concreta e la fecero anche i suoi funzionari. Chi con intelligenza, ironia e rigore, chi con stupidità, settarismo e pignoleria, chi con religiosità e chi più laicamente. A volte quel partito seppe spingere avanti la ruota della storia e lo sviluppo del Paese, a volte li frenò, ma fu parte di una vicenda nazionale, non di una chiesa separata con un Dio chiamato Comunismo”.

Un giudizio nel quale mi riconosco pienamente, e credo che anche Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli non farebbero fatica a condividerlo. Sono infatti le autrici di un originale libro fresco di stampa, Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pci (Harpo editore), che dà conto con “intelligenza, ironia e rigore”,appunto, del lessico con cui il Partito comunista seppe parlare a milioni di persone, coinvolgendole in un’esperienza democratica che è stata larga parte della ricostruzione del Paese nel secondo dopoguerra.

Forse soltanto la collaborazione tra due donne dalla cultura politica molto diversa (pur essendo entrambe fieramente garantiste) poteva produrre questo piccolo capolavoro della memoria. Come si autodefiniscono nell’Introduzione, Chiaromonte è “gradualista, riformista, capace di mediare anche con i muli”; Bandoli è “estremista, radicale, e a mediare ha imparato solo con il tempo e guardando l’altra”. Ambedue ex deputate, hanno ricoperto ruoli di rilievo nel Partito comunista e successivamente nei Ds. Conoscono bene, quindi, il mondo da loro descritto attraverso un vocabolario di centottanta parole, redatte con un  linguaggio sideralmente distante da quello in uso nel dibattito pubblico odierno, sempre più gergale, freddo, scarno, e che spesso si riduce a un ruvido tweet.

“Blocco storico”, “egemonia”, “conventio ad excludendum”, “elementi di socialismo”, “popolo”, “modello di sviluppo”, “spirito di servizio”, “strategia della tensione”, “prassi”, “moderno Principe”,  “meridionalismo”, “industrialismo” e tanti altri termini ancora, alcuni antichi altri più recenti, che hanno segnato quasi mezzo secolo di vita non solo del Pci, ma dell’Italia repubblicana. E poi il mitico “corpo del Partito”, il lemma che sta particolarmente a cuore alle autrici: l’insieme di iscritti, simpatizzanti, elettori e “anche qualcosa di più, qualcosa di mistico, oggi si direbbe di simbolico”.

Leggere il glossario di Chiaromonte e Bandoli è stato, per chi scrive, come leggere la sceneggiatura di un film già visto ma dimenticato, sepolto nella cineteca dei ricordi. Di un film però che, quando lo rivedi, suscita sentimenti di nostalgia e melanconia (che, del resto, le stesse autrici non nascondono). Ecco perché, se è concessa un’osservazione critica, pensando al tempo presente forse avrebbe meritato un cenno anche un’altra espressione chiave della creatura forgiata da Palmiro Togliatti: “responsabilità nazionale” o, se si preferisce, “senso delle istituzioni”. Quando “la linea” (una delle parole del glossario) veniva decisa, allora non veniva messa ogni giorno in discussione.

Con alti e bassi, con svolte e aggiustamenti, restava cioè l’idea di un partito affidabile, baluardo delle istituzioni, anche se sul piano ideologico poteva persistere l’utopia di un cambio di sistema. Adesso è tutto più ondivago e casuale. La tattica si fa strategia e la strategia si fa tattica. Cosicché il principale partito della sinistra italiana può tranquillamente recitare due parti in commedia: quella di antagonista del populismo e quella di concorrente del populismo sul suo stesso terreno (nella vicenda di Bankitalia è prevalso il secondo profilo).

Il glossario è impreziosito da dieci interviste fatte a protagonisti, sia pure in modi ed epoche diverse, della storia del Pci (tra gli altri, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Luciana Castellina, Livia Turco). Scorrendo le loro risposte alla domanda su quali testi si sono formati, confesso di essere  rimasto colpito dal dominio incontrastato della grande letteratura russa, francese e tedesca. Soltanto nell’enciclopedica biblioteca di Marisa Rodano, se non sbaglio, compaiono alcuni nomi della grande letteratura inglese e americana. Mi ha inoltre meravigliato l’assenza di citazioni, accanto ai classici del marxismo, delle opere di John Maynard Keynes, attualmente icona delle  ricette economiche che si oppongono al neoliberismo. Ma si tratta solo di pignolerie, e perciò chiedo venia. Balza invece agli occhi un dato ben più importante, ossia che la maggioranza degli intervistati dichiara di non avere oggi alcun partito di riferimento. “A loro – chiosano Chiaromonte e Bandoli- ci aggiungiamo noi, che continuiamo ad amare la politica ma non troviamo luoghi confortevoli dove farla con altre e altri”.

La storia non si ripete, si dice. È vero per quel che riguarda gli eventi. Ma non è altrettanto vero, osservava Norberto Bobbio, rispetto agli stati d’animo, agli umori, alle emozioni con cui gli eventi sono da ciascuno vissuti. Stati d’animo, umori ed emozioni si ripetono. Speranze e timori di fronte al futuro che è difficile prevedere. Recriminazioni o rimpianti rispetto al vecchio da cui ci siamo allontanati. Ottimismo e pessimismo si alternano secondo il mutare delle situazioni. E poi, anche se è vero che la storia non si ripete, la maggior parte degli uomini e delle donne ricorda poco o nulla del passato storico o ne ha una memoria distorta.

Siamo nell’era della “post-verità” e delle fake news. Chi naviga nella Rete e ragiona col proprio cervello non può pertanto che essere fortemente preoccupato dalle fandonie che si raccontano sulla prima repubblica. È incredibile quanti sono oggi i nostri concittadini cui le destre riemerse (tra cui   il movimento di Beppe Grillo) sono riuscite a far credere che era venuta l’ora di cambiare perché la prima repubblica era stata governata dalle sinistre, Pci in testa. Chi lo spiega ai giovani che si tratta di una triste menzogna? Chi lo spiega ai consumatori compulsivi di tablet e smartphone che la politica ha bisogno di conoscere la storia? La politica senza la storia -ha notato Alessandro Manzoni– è come un cieco senza una guida che gli indichi la via.

Benedetto Croce, in uno dei Marginalia che chiudono la sua Teoria e storia della storiografia, menziona e commenta una acuta frase di quel precursore dell’Illuminismo che fu Pierre Bayle, autore di un famoso Dictionnaire historique: “La perfection d’une histoire est d’être désagréable a toutes le sectes”. Per la storia del Pci siamo certamente lontani dalla perfezione, ma bisogna accettare almeno di essere “sgradevoli” a chi la demonizza, come hanno avuto il coraggio di fare Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli.

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