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Saipov e Uzbekistan, ecco come l’Asia Centrale è diventata una culla baghdadista

L’attentatore che ieri ha investito decine di persone uccidendone otto lungo una pista ciclabile al centro di New York si chiama Sayfullo Saipov, ha ventinove anni ed è originario dell’Uzbekistan. All’interno del furgone che ha utilizzato per l’attacco c’era un foglio con scritta la dedica del gesto al Califfo Abu Bakr al Baghdadi: è sceso dal veicolo urlando “Allahu Akhbar”, ha cercato il martirio lanciandosi contro i poliziotti armato di pistole giocattolo. Saipov da qualche tempo abitava a Paterson, nel New Jersey, hub industriale dove la percentuale dei musulmani è una delle più alte degli Stati Uniti (nel maggio del 2001, pochi mesi prima del 9/11, almeno due degli attentatori del World Trade Center avevano passato del tempo là).

L’ESTREMISMO COME RISPOSTA AI TAGHUT

Era arrivato dal paese dell’Asia Centrale nel 2010, aveva una carta verde per vivere in America, una moglie e due figli. Il portavoce della moschea di Paterson è rammaricato dell’accaduto, teme che possano esserci vendette settarie contro la sua comunità, e sui media locali ci tiene a sottolineare che l’attentatore “non era arabo”. L’Uzbekistan da cui proveniva Saipov sta diventando uno dei luoghi di provenienza di molti attentatori: è una delle ex repubbliche sovietiche che dal 1991 sono state amministrate in modo autoritario (“Taghut” vengono chiamati i membri del governo dai gruppi radicali islamici, con un termine coranico che indica coloro che si sono messi al di sopra di Dio). Questo aspetto è uno di quelli che ha portato molti giovani a lasciare il Paese; molti altri a cercare ribellione tra le istanze estremiste musulmane (la maggioranza religiosa) più per ragioni di disperazione che per ideologia.

IL PESO DEI COMBATTENTI DALL’ASIA CENTRALE

Dal 2014, quando il Califfato lanciò il suo assalto in Iraq e Baghdadi emerse sul pulpito di Mosul per dichiarare lo Stato islamico, si assiste a un continuo flusso di combattenti muhajiirin – come vengono chiamati coloro che scelgono la hijra, il viaggio, per il jihad – provenienti dalla regione centro asiatica. E l’Uzbekistan è uno dei serbatoi di questi foreign fighters (ora in realtà il flusso è ridotto per via delle disgrazie militari e statuali dell’IS in Siria e Iraq); il Movimento islamico uzbeko (gruppo terroristico secondo il governo americano noto come IMU) dichiarò la propria baya al Califfo già nel 2015. Questi viaggi, anche in direzione ritorno, sono stati analizzati in uno studio del Soufan Center uscito a metà ottobre. I combattenti uzbeki sono da anni profondamente incorporati nello Stato islamico in Iraq e in Siria, ma combattono anche al fianco dei talebani in Afghanistan, dispongono di postazioni segrete nelle maggiori città russe, e hanno legami con militanti musulmani provenienti dalla Cina. La valle di Ferghana, una fitta e densamente popolata striscia di terra che attraversa Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, è considerato il cuore del reclutamento.

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Fonte: Soufan Center

QUALCHE PRECEDENTE

“L’economia [uzbeka] non è molto vivace. Ed è anche uno dei paesi più oppressivi del mondo, quindi i giovani stanno fuggendo dalla dittatura e, allo stesso tempo, non sono in grado di adattarsi alle società occidentali”, ha commentato a Newsweek Erica Marat, esperta di Asia centrale del College of International Security Affairs: “I modelli di radicalizzazione per gli uzbeki sono in qualche modo simili a quelli dei migranti provenienti da altri Paesi, l’incapacità di inserirsi nella società in cui vivono, l’incapacità di vivere il sogno americano. Quindi cercano vie di appartenenza e le narrazioni estremiste sembrano essere le più interessanti”. Per esempio, ad aprile è stato un rifugiato uzbeko a lanciarsi sulla folla a Stoccolma in un attentato molto simile a quello del pomeriggio di Halloween newyorkese. Già nel 2015 due uzbeki furono arrestati a Brooklyn con l’accusa di cospirare un attacco terroristico. Uomini dall’Asia Centrale (ceceni, uzbeki, kyrgyzi) sono stati coinvolti negli attacchi turchi all’aeroporto Ataturk e al locale Reina di Istanbul.

L’ESTREMISMO DALL’ASIA CENTRALE

Molti di loro, spiega il sito specializzato in affari asiatici The Diplomat, sono stati usati per portare a termine missioni suicide in Siraq. Uno dei vantaggi nel reclutamento è anche l’affinità linguistica con i turchi, importante perché per anni il confine turco-siriano è stato il rubinetto d’ingresso al Califfato per migliaia di foreign fighters. L’Asia centrale è un territorio dove si muovono da anni gruppi politici come Hizb ut-Tharir, che ha come obiettivo dichiarato la creazione di un califfato regionale. Oltre dieci anni fa, Fiona Hill della Brookings Institution disse davanti al Congresso americano: “L’analisi oggettiva e premurosa delle radici dell’estremismo religioso, un impegno a lungo termine all’assistenza e un’attenta valutazione, un coordinamento e una pianificazione di emergenza, sono le uniche soluzioni per affrontare le sfide dell’Asia centrale e per raggiungere il successo nella guerra al terrorismo nella regione”.

(Foto: video dell’IMU, agosto 20015, il leader Usmon Ghazi dichiara fedeltà al Califfo)


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