Parlando all’Assemblea Nazionale della Repubblica di Corea, a cinquanta chilometri dal confine con la Corea del Nord di Kim Jong-un, Donald Trump formula l’ennesimo ultimatum al Maresciallo, reo di seminare il terrore con le sue armi nucleari e i suoi missili balistici. Nella terza tappa del suo viaggio in Asia, che l’ha già portato in Giappone e ora, dopo la breve visita in Corea del Sud, lo condurrà alla corte del presidente cinese Xi Jinping, il capo della Casa Bianca formula un discorso che vuole essere la riprova della sua determinazione a risolvere una crisi che sta turbando gli equilibri della regione e mettendo a dura prova non solo il sistema di alleanze che l’America ha tessuto nel secondo dopoguerra, ma anche l’egemonia americana nel Pacifico, già sottoposta alle pressioni dell’ascesa inarrestabile del colosso cinese.
“Il mondo”, dice Trump ai parlamentari che gli tributano numerosi applausi e una calorosa standing ovation finale, “non può tollerare la minaccia di un regime canaglia che lo minaccia di devastazione nucleare”. È la sintesi del pensiero trumpiano, indice della volontà di essere, da comandante in capo della superpotenza americana, colui che difenderà il pianeta dalle intemperanze di un dittatore che lancia il suo guanto di sfida a tutti, incurante delle sanzioni elevate a più riprese e all’unanimità dalle Nazioni Unite.
Il presidente Usa rifugge dalla retorica personalizzata del mese scorso, che l’ha visto pronunciare più volte il nome di Kim Jong-un associandogli nickname offensivi, come il celebre “piccolo uomo razzo”. Ma lancia comunque un messaggio inequivocabile a lui e al suo regime: “Non sottovalutateci e non metteteci alla prova”. Gli Stati Uniti sono disposti a tutto pur di domare chi mette a repentaglio la pace in una zona cruciale per gli equilibri economici del mondo, dove Corea del Sud e Giappone vivono una condizione di quotidiana insicurezza a causa delle manovre militari di quell’irrequieto vicino. Oltre che con le parole, è con i fatti che Trump vuole dimostrare a Kim che questa situazione è intollerabile. Su ordine del presidente, tre portaerei americane e un sottomarino nucleare incrociano in queste ore nel Pacifico, in vista di esercitazioni che vogliono essere la riprova della risolutezza degli Usa e dell’incrollabile volontà di garantire la sicurezza dei suoi alleati.
Con i test missilistici degli ultimi mesi, e quello nucleare del 3 settembre, il sesto nella storia del programma nucleare di Pyongyang, Kim ha rilanciato la sfida al colosso a stelle e strisce, dimostrandogli che ora persino il suo territorio è nel mirino. Molti analisti concordano: lo sviluppo tecnologico di Pyongyang è stato superiore alle attese, e ora il regime dispone di missili balistici intercontinentali in grado di colpire non solo le basi oltremare di Guam o delle Hawaii, ma persino le metropoli Usa. Vi è maggiore incertezza sulla sua capacità di montare delle testate nucleari sui vettori: il processo di miniaturizzazione e il controllo delle fasi di proiezione dei missili dal decollo al rientro nell’atmosfera potrebbero essere ancora fuori dalla sua portata. Ma nessuno sottovaluta la determinazione del Nord di conseguire quel risultato, né possono essere ignorate le dichiarazioni dei suoi portavoce che ribadiscono regolarmente la volontà di punire il nemico imperialista, colpendolo in casa.
“Non permetteremo”, dichiara però Trump all’Assemblea Nazionale, “che le città americane siano minacciate di distruzione. Non ci faremo intimidire”. Il presidente promette alla Corea del Sud che, quand’anche gli Stati Uniti fossero nel mirino dei missili di Kim, non rinunceranno a difenderla, come scommette il dittatore nel suo lucido calcolo. Trump assicura infatti alla platea che “non permetteremo che le peggiori atrocità della storia si ripetano qui, qui abbiamo combattuto e siamo morti per rendere sicura” la Corea del Sud dall’aggressività del Nord.
Trump vuole essere inequivocabile nel suo impegno a difendere il Sud dalle minacce di Pyongyang. Rivolgendosi ai responsabili del regno eremita, il presidente sottolinea che le armi che sta perfezionando in barba alle sanzioni “non vi renderanno più sicuri, ma mettono il vostro regime in grave pericolo. Ogni passo che fate in questa oscura direzione aumenta il pericolo che affronterete”.
Seppur granitica, la fermezza di The Donald lascia uno spiraglio al dialogo. L’America è disponibile, dice, ad assicurare alla Corea del Nord un “percorso verso un futuro migliore”. A patto, però, che scelga la “denuclearizzazione completa, verificabile, totale”. È questa, nella visione del presidente, l’unica strada possibile per uscire dalle nebbie di una crisi apparentemente senza soluzione. Lo chiedono le Nazioni Unite, lo chiede l’Europa, lo chiede perfino la Cina, anche se Pechino rimane l’unico alleato del Nord e la migliore garanzia perché un regime comunista, antagonizzante verso gli Usa e i suoi alleati, rimanga in piedi. È di questo, d’altronde, che Trump e Xi parleranno vis-à-vis nei prossimi giorni.