Un articolo di Politico attacca così: “Sei mesi dopo che il presidente Donald Trump ha ordinato un raid aereo contro una base del governo siriano, un atto che [secondo] i suoi assistenti avrebbe dato agli Stati Uniti una leva rinnovata in tutto il Medio Oriente, [Washington] è sempre più uno spettatore mentre il presidente russo Vladimir Putin assume la guida nella formazione della Siria del dopoguerra”. Tant’è, tanto basta. Sei mesi fa Trump ordinò un’azione dimostrativa contro il regime di Bashar el Assad: una pioggia di missili cruise Tomahawk cadde sulla base aerea da cui era decollato l’aereo responsabile dell’attacco al sarin sui civili della cittadina ribelle di Khan Shaykun. Ora non solo i ribelli non esistono più (sono confinati in un perimetro ristretto della provincia di Idlib senza speranze), e quell’azione dimostrativa tale è restata, ma anche l’inchiesta che delle Nazioni Unite che ha definitivamente incolpato Damasco, e dunque Assad, per quel crimine di guerra è stata congelata dal veto russo al Consiglio di Sicurezza (una situazione grottesca, dove si conosce il responsabile delle crudeltà, ma per il blocco politico-burocratico di Mosca non si potrà procedere oltre, ossia a incolparlo).
Oggi 22 novembre, nel suo ritiro balneare di Sochi, il presidente russo ospita un vertice di alto livello cui partecipano Hassan Rouhani dall’Iran (alleato di Mosca che è diventato il centro delle politiche di contrasto regionali degli alleati americani anche per il ritiro di Washington dalla crisi) e il turco Recep Tayyp Erdogan (che cerca ogni via per accreditarsi a livello internazionale, compresa quella di giocare contro i suoi vecchi interessi, sia quelli Nato, sia quelli secondo cui ha sponsorizzato la ribellino siriana).
Ieri, 21 novembre, Putin aveva ospitato sempre a Sochi il rais siriano Bashar el Assad: l’immagine dell’abbraccio tra i due segna il futuro siriano. Adesso che i ribelli sono stati schiacciati dall’azione russo-iraniana a sostegno del regime siriano e che lo Stato islamico è stato debellato dall’impegno esasperato americano, Assad è pronto a rappresentare gli interessi di chi l’ha sostenuto in Siria. Ossia, gli americani hanno lottato con intelligenza e assiduità contro il Califfato per ripulire un territorio di cui, alla fine, sono i russi a deciderne le sorti. Notare: quando si parla di Siria in Medio Oriente, è come parlare di Germania in Europa, ossia di uno Stato chiave, il cui destino si vincola (ora più che mai) alle dinamiche generali della regione.
Secondo le fonti che emergono sui giornali americani, Trump considera la Siria “la personale sconfitta di Obama”, e dunque ha intenzione di restarne il più distante possibile – per esempio, a luglio Trump ha deciso di sospendere definitivamente il programma segreto, obamaniano, con cui la Cia aiutava alcuni gruppi certificati di ribelli siriani. Però Trump ha un problema: l’Iran. Putin dopo l’incontro con Assad ha telefonato anche alla Casa Bianca, che ha commentato la conversazione tra i due leader con i soliti toni diplomatici e facendo attenzione a non tirare mai in ballo Teheran. La presenza politica che la Repubblica islamica s’è guadagnata negli anni di guerra civile in Siria ha un riverbero regionale, ed è detestata dagli alleati storici americani nell’area: Arabia Saudita e Israele, che infatti hanno avviato politiche di contatto diretto con la Russia, mentre però cercavano la sponda americana a copertura dei propri interessi.
Una volta la presenza di Assad alla guida della Siria post-bellica era considerato un argomento non-starter per Washington. La politica era dominata dal “must-go!” obamiano, ripreso in parte dall’attuale segretario Rex Tillerson che poco tempo fa invitava i russi a riflettere sul loro sostegno al rais. L’abbraccio di Sochi, il secondo dopo quello che ha accompagnato l’intervento russo in Siria nel 2015 (fu il primo incontro personale tra Putin e Assad), è il punto finale: la retorica americana ha perso, Assad ha vinto la guerra, la Siria è affare russo. Sarà Mosca a decidere gli equilibri, soprattutto gestendo l’Iran, e i malumori che crea.
(Foto: Kremlin.ru)