Nel giorno in cui il presidente Donald Trump ha ottenuto il più importante (se non l’unico) successo politico di questi mesi di amministrazione – il passaggio al Senato della grande riforma fiscale promessa in campagna elettorale – una tegola gli è caduta in testa. Il suo fidato collaboratore ed ex Consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, s’è dichiarato colpevole davanti a un tribunale federale di aver mentito all’Fbi a proposito dei suoi contatti con elementi del governo russo. Si tratta del più grosso fatto successo finora nell’ambito del Russiagate, l’enorme inchiesta che il dipartimento di Giustizia (attraverso lo special counsel Robert Mueller) sta conducendo parallelamente ad alcune commissioni congressuali per sviscerare le interferenze russe durante le presidenziali, verificare se queste erano state fatte in collusione con il comitato elettorale di Trump, capire se il presidente abbia cercato di ostacolare il corso della giustizia.
FLYNN COLLABORA
Già da qualche giorno gli avvocati di Flynn s’erano sganciati dal team legale che tutela gli interessi del presidente nell’inchiesta (anche se Trump ne è formalmente fuori), e questo faceva supporre che l’ex advisor cercasse una qualche forma di collaborazione. La conferma è arrivate venerdì: Mueller lo ha incriminato di aver mentito all’Fbi a proposito di alcune conversazioni avute con l’ambasciatore russo a Washington Sergei Kislyak. Poche ore dopo, arrivato davanti alla corte, Flynn ha ammesso le colpe e ha detto di voler collaborare; potenzialmente potrebbe già aver rivelato a Mueller informazioni di alto valore, ma ancora non è noto. La ABC, la prima a dare la notizia, dice che Flynn avrebbe detto al procuratore di essere pronto a collaborare “totalmente” nell’inchiesta; Flynn nella nota dopo l’udienza preliminare di venerdì mattina ha scritto di aver preso la decisione di collaborare per il bene della sua famiglia e del paese.
DUE ACCUSE SPECIFICHE
Ci sono due momenti esatti per cui Mueller lo accusa di aver mentito all’Fbi: il 22 dicembre 2016 ha discusso con Kislyak come la Russia avrebbe votato durante una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; il 29 dicembre ha chiesto all’ambasciatore di evitare reazioni di Mosca alle prime sanzioni alzate dall’amministrazione Obama per le interferenze russe alle presidenziali, perché tanto, una volta eletto Trump, le cose sarebbero cambiate (Trump il 30 dicembre si complimentò con il Cremlino per aver tenuto il sangue freddo e non aver mosso reazioni). Flynn aveva inizialmente negato entrambe le conversazioni agli agenti che lo avevano sentito il 24 gennaio, fornendo falsa testimonianza. La seconda conversazione è quella che, scoperta dai media americani, gli è costata le dimissioni il 13 febbraio: a dicembre, infatti, Flynn non era ancora in carica al Consiglio di Sicurezza nazionale perché l’amministrazione Trump era ancora in fase di transizione, e dunque non avrebbe potuto tener nessun genere di contatto a nome del governo americano. L’ex consigliere in aula ha ammesso di aver cercato i russi perché gli era stato chiesto da Trump – Flynn dei notabili del comitato elettorale era quello con maggiori entrature a Mosca. C’è da sottolineare che questi contatti non sono il motivo dell’incriminazione (che è la falsa testimonianza all’Fbi) e non sono al momento stati indicati come reato di per sé: dipende da ciò che c’è dietro, e che al momento solo Flynn può dire allo special counsel (ossia: quale era il suo incarico?).
LA DIFESA DEBOLE
La difesa di Trump ha reagito in modo scomposta alla notizia della collaborazione di Flynn: il gruppo di avvocati l’ha definito un “uomo di Obama” in un comunicato uscito dopo l’udienza di venerdì, facendo riferimento al fatto che prestò servizio come capo dell’intelligence militare nell’amministrazione precedente, e cercando di muovere le leve che solleticano automaticamente gli elettori trumpiano (è uno di Obama, è il male). Val la pena ricordare anche che Barack Obama licenziò Flynn, generale a capo della DIA, e sconsigliò personalmente a Trump di sceglierlo al Consiglio di Sicurezza. È evidente che la linea-Obama è una linea difensiva debole per Trump: è noto che Flynn ha avuto un profondo rapporto, anche personale, con Trump: è stato il consigliere sulla politica estera durante tutta la campagna, ed è stato scelto come ANPSA anche per questo rapporto di fiducia ed empatia umana. Per esempio: uno dei passaggi più controversi finora della presidenza di Trump, è legato a Flynn. Durante una riunione nello Studio Ovale, a gennaio, infatti il presidente avrebbe chiesto all’ex direttore dell’Fbi James Comey di allentare la presa sul Russiagate e soprattutto sulle questioni collegate a Flynn (che è indagato dai federali anche per aver preso dei soldi dal governo turco non dichiarandosi come lobbista). Comey si rifiutò, Trump dopo poco licenziò il capo del Bureau, e il dipartimento di Giustizia decise di nominare Mueller come procuratore speciale per l’indagine (che prima era condotta direttamente dall’Fbi) per evitare intromissioni della Casa Bianca.
LE INTROMISSIONI DI TRUMP
In questi giorni è uscita anche un’altra notizia sotto quest’ambito: secondo il New York Times, Trump quest’estate avrebbe fatto pressioni, in più occasioni, su alcuni senatori affinché facessero in modo di chiudere rapidamente le inchieste di commissione sul Russiagate. Diversi Committee del Senato (e della Camera) stanno conducendo indagini separate a quelle di Mueller sempre sullo stesso argomento: in particolare, Trump avrebbe chiesto di farla breve al capo della Commissione Intelligence, il senatore Richard Burr, che ha confermato al Nyt quanto successo, insieme al collega Roy Blunt. I repubblicani dicono che è stato soltanto un modo scoordinato di porsi da parte del presidente, che non ha ancora troppa famigliarità col delicato protocollo che ruota attorno a certe faccende, e niente di più. Ma è evidente che è un elemento in aggiunta per capire se Trump sta cercando, o abbia cercato, di usare la sua autorità per mettersi di traverso al corso del Russiagate. La collaborazione di Flynn avvicina ancora di più l’inchiesta al presidente: un op-ed sul Washington Post si chiede “chi sarà il prossimo?” e fa i nomi di Jared Kushner, il genero di Trump e molto attivo consigliere sia in campagna elettorale che alla Casa Bianca, e di Don Jr, il figlio del presidente, che portò alla Trump Tower di New York un’avvocatessa russa che sosteneva di aver informazioni compromettenti su Hillary Clinton come parte “dell’offerta di aiuto” russa al candidato repubblicano. Intanto, venerdì, nei quindici minuti successivi all’uscita della breaking dell’ABC su Flynn, il Dow Jones è sceso di 150 punti.