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Immigrazione, Islam e Isis. Parla Olivier Roy

chekatt

Cosa spinge un giovane musulmano ad abbracciare la causa del terrorismo islamico nella speranza di divenire un martire? A questa domanda il sociologo francese Olivier Roy, uno dei massimi esperti di terrorismo al mondo, ha cercato di rispondere nel corso della sua lunga carriera trascorsa all’interno di istituzioni internazionali come l’OSCE e l’ONU, ma anche in prestigiosi centri di ricerca francesi come l’Institute d’Etudes Politiques de Paris (IEP). Oggi i suoi libri sono l’abc per qualsiasi studente di islamologia. Formiche.net lo ha incontrato a margine di un incontro della scuola di formazione politica della Fondazione De Gasperi, per chiedergli come l’Europa dovrà far fronte all’emergenza terrorismo man mano che l’ISIS perde uomini, città e forze.

Il recente attacco sanguinario alla moschea egiziana nel Sinai ha fatto centinaia di vittime sufite per mano di sunniti. È segno che esiste più di una profonda divisione all’interno della famiglia islamica?

Non dobbiamo esagerare nell’islamizzare i conflitti. È una guerra tribale: l’Isis ha usato il pretesto del sufismo per “punire gli eretici”, ma nei fatti parliamo di un regolamento di conti. Gli emirati islamici locali sono sempre suddivisi in tribù, alcune si alleano con il governo, altre aprono le porte agli jihadisti. Questo è successo in Nigeria, in Mali, Afghanistan, Yemen, Sinai.

Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha dichiarato che c’è il pericolo di un ritorno dei foreign fighters dalle roccaforti dell’ISIS cadute. Secondo lei si tratta di una minaccia imminente per l’Europa?

Non esattamente. Prima di tutto perché li conosciamo, sappiamo i loro nomi. Credo che molti di loro torneranno indietro con sentimenti contrastanti, alcuni come fanatici in cerca di vendetta, altri semplicemente per evitare la galera e iniziare una vita normale. Chi invece è ricercato per terrorismo non avrà vita facile, la polizia controllerà le loro case, i telefoni dei famigliari e dei loro amici.

Di che numeri parliamo?

Qualche centinaio, non sono così tanti, perché molti sono stati uccisi. Solo gli europei torneranno in Europa, gli altri cercheranno una nuova jihad, magari in Medio Oriente oppure in Nigeria, nel Mali, nelle Filippine o in Indonesia.

Alla luce degli ultimi attacchi terroristici, crede ancora che siano le persone già radicalizzate a cedere al terrorismo islamico, o il messaggio jihadista ha un appeal che prescinde dal terreno che incontra?

Gli ultimi attacchi confermano la mia teoria dell’islamizzazione della radicalità: queste persone non hanno un vero background religioso, sono ben integrate, quindi non c’entra nulla il razzismo o l’esclusione sociale. Il processo di radicalizzazione nasce piuttosto in piccoli gruppi di amici che vivono una vita normale, e che subiscono il fascino del messaggio jihadista prima ancora di divenire buoni musulmani.

In Italia da qualche mese è tornato sulle prime pagine il dibattito sullo Ius soli, una proposta per perfezionare la legge sulla cittadinanza già esistente. È una legge necessaria?

Una legge che apra alla cittadinanza è il miglior modo per integrare gli immigrati. C’è bisogno di integrare l’Islam come religione europea, e il miglior modo di farlo è avere cittadini musulmani. La chiave per sconfiggere il terrorismo non è l’immigrazione, ma l’integrazione.

Cioè?

In Europa esiste una gioventù nichilista che non vede un futuro davanti a sé. Questi ragazzi scelgono l’Islam perché oggi il messaggio dell’Islam radicale è l’unico sul mercato, l’estremismo di sinistra non ha più un appeal globale. Non c’è dunque alcuna correlazione con la cittadinanza, molti dei terroristi sono dei convertiti.

È sicuro che l’immigrazione non faciliti in alcun modo l’entrata di terroristi nel Vecchio Continente?

L’immigrazione è un problema per definizione. Per la maggior parte quelli che stanno arrivando in Europa non sono terroristi. I siriani in particolare fuggono da guerra e devastazione. I radicalizzati più pericolosi appartengono piuttosto alla seconda generazione di immigrati. La prima generazione è giunta negli anni scorsi portando con sé le proprie tradizioni, mentre la terza è ormai composta da cittadini europei. Ma gli immigrati di seconda generazione non riescono a integrarsi: non parlano più la lingua dei loro nonni, e il loro Islam fa fatica ad adattarsi ad una società secolarizzata.

Come si spiega l’omertà di una parte della comunità islamica (anche italiana), che non si decide a condannare apertamente gli episodi di violenza dei terroristi islamisti?

Molti musulmani condannano gli attacchi terroristici. Ma non esistono istituzioni, non c’è una Chiesa né rappresentanti ufficiali, ognuno parla per se stesso. In Francia le poche istituzioni islamiche esistenti, come l’Imam nigeriano di Parigi o il Consiglio Francese dei Musulmani, un organo nominato dal governo francese con il supporto del Marocco, non sono riconosciute né legittimate dal popolo. Per questo commettiamo un errore quando ci aspettiamo che i musulmani si comportino come la comunità cattolica.


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