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La rinuncia di Angelino Alfano e il futuro del popolarismo italiano

La notizia è arrivata nella giornata di ieri, quasi in contemporanea alla simile scelta di Giuliano Pisapia. Angelino Alfano si ritirerà dalla politica e non correrà alle prossime elezioni nazionali. Opzioni di questo tipo meritano sempre un grande rispetto. Chi le fa decide di se stesso, prima ancora di caratterizzare in modo sottrattivo – in questo frangente – l’equilibrio e la sorte di tanti o pochi amici ed elettori appassionati che lo seguono. Soprattutto per un politico, ben più che per qualsiasi altro professionista, l’abbandono della propria attività è una preferenza estrema, la quale, soprattutto oggi, deve essere sempre messa in conto da chi milita attivamente, senza poterla fare però dignitosamente se non una volta nella vita. Ecco perché, in fin dei conti, tale volontaria determinazione merita riguardo e anche apprezzamento, per la rispettabilità che ha la persona che la compie e per la presa d’atto realista che la motiva.

Dopodiché, nel caso in questione, la vicenda di Alfano apre tanti interrogativi politici e offre un’occasione per riflettere in modo complessivo sulla legislatura che si sta chiudendo, e su quella che si aprirà tra poco. Il politico siciliano è stato, infatti, il “delfino” di Silvio Berlusconi, molto prima di diventare una spina nel fianco del leader azzurro, decidendo improvvisamente – ma non avventatamente – di abbandonare il Popolo delle Libertà per fondare il Nuovo Centrodestra.

La ragione principale fu il perdurante sostegno al governo di larghe intese di Enrico Letta: una predilezione di restare nella maggioranza che indubbiamente aveva, dato il carattere autorevole del presidente del Consiglio di allora, un significato non banale e molto sensato. Venivamo, infatti, dalla difficile rielezione d’inizio legislatura di Giorgio Napolitano al Quirinale e da una necessità incombente di realizzare come Italia un percorso politico di unità nazionale che portasse tutti fuori dal guado.
Ben diverso, ad avviso di chi scrive, fu invece il sostegno dato al governo di Matteo Renzi, anche e soprattutto per il carattere molto più politico e identitario della nuova guida di Palazzo Chigi. Da allora Ncd e poi Ap sono stati indubbiamente fedeli a quella linea di collaborazione al centrosinistra di marca renziana che ha portato il governo Gentiloni fin qui, come ha ricordato a caldo Maria Elena Boschi.

Il punto, però, che segna forse una delle ragioni di questa rinuncia personale di Alfano a proseguire in politica è l’agonia del progetto stesso di un centrodestra che fosse autenticamente nuovo, vale dire diverso da quello vecchio: un prospetto identitario che, questo sì, non ha funzionato come avrebbe dovuto, sia in termini di consenso e sia in termini di spazio politico ricavato. Nel frattempo la leadership di Renzi si è modificata dopo il fallito referendum, ed è cresciuta la spinta propulsiva della destra leghista e nazionalista. Inoltre la spaccatura a sinistra del Pd, non riducibile in un baleno, ha modificato la collocazione del Pd stesso, finendo per includere in solitaria, cosa resa evidente dalla difficoltà di fare alleanze, tutto quello che non è opposto al riformismo renziano. Da ultimo, ma non da ultimo, Berlusconi tornato a rivestire un ruolo di perno del centrodestra, che così rievoca in sé l’antico polo del buon governo come coalizione composita e competitiva sulla carta sia rispetto al M5S e sia al Pd.

Resta nondimeno un punto inevaso in questa situazione progressiva. Le ragioni di un centrodestra che sia autenticamente popolare, di un centro che possa interpretare il conservatorismo senza estremismo, senza cadere peraltro in una forma moderna di riformismo di sinistra, quale quello che Renzi incarna: insomma quello che sarebbe voluto essere il Ncd di Alfano.

Quanto sarebbe potuto servire al Paese avere una forza politica culturalmente di centro, intellettualmente preparata, e solidamente europeista, sebbene di altra genia rispetto alle matrici socialiste, al di là delle poltrone e dei nomi, è quasi inutile ricordarlo ed è pressoché impossibile prevederlo. Alfano almeno ci ha provato. La storia ci dirà se sarebbe potuto essere meglio che fosse riuscito nel suo intento. Ora resta un patrimonio culturale da portare avanti, in primis sulle questioni etiche, antropologiche, laburiste ed economiche, un equilibrio razionale e prudente tra opposte tensioni sociali e ideologiche che difficilmente potrà avere uno spazio nella prossima legislatura al di fuori dei tre poli esistenti, ma che mai e poi mai potrà lasciarsi rappresentare di per sé dalle coalizioni in campo attualmente.

Il ritiro di Alfano, in fondo, è la rinuncia politica e non la fine culturale del popolarismo italiano di governo. Quest’ultimo vive sempre, infatti, in tante idee e bisogni degli italiani che certamente restano tali ben oltre questo momento storico: una politica moderata, chissà, che un domani potrebbe tornare utile, ad esempio se nessuno vincesse le elezioni.


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