Tutte le nazioni del mondo arabo dovrebbero unirsi per difendere i diritti della Palestina dopo le parole di Donald Trump su Gerusalemme, dichiarata capitale unica di Israele dal presidente americano, e prossima città ospitante dell’ambasciata statunitense (in realtà molto prossima, visto che ancora Washington non ha nemmeno avviato le trattative per acquisire il terreno dove piazzarla). L’ha detto Hassan Rouhani due giorni dopo un altro annuncio ben più operativo di Teheran, quello del generale Qassem Souleimani. Lunedì il capo delle Quds Force iraniane (“Quds” significa Gerusalemme ed è un nome evocativo quanto programmatico) ha contattato il leader delle Sarayat Al Quds, che è la brigata che fa da braccio armato alla Jihad Islamica, uno dei gruppi più radicali tra quelli che rivendicano i diritti dei palestinesi, e gli ha riaffermato la propria vicinanza, sia spirituale/morale, che pratica; la Jihad Islamica, così come Hamas (altro gruppo che combatte la presenza ebraica in Israele), è finanziata, addestrata e armata clandestinamente dall’Iran, che usa queste realtà paramilitari proxy di contrasto contro lo stato ebraico. Souleimani è un esperto del mestiere: è sua infatti la strategia con cui l’Iran ha diffuso la propria influenza in tutta la regione, costruendo dei partiti/milizia locali (il più famoso è Hezbollah in Libano, ma ce ne sono in Iraq, in Afghanistan, in Siria, Yemen e Palestina, appunto) che incarnano ideologicamente, ma soprattutto politicamente, l’agenda di Teheran. Lo stesso messaggio di vicinanza il generale lo ha affidato al capo delle Brigate Qassem, il braccio armato di Hamas.
IRAN, TURCHIA (E RUSSIA): L’ASSE CONTRO TRUMP
Rouhani ha parlato durante una riunione straordinaria dei 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, Oic, che si è tenuta a Istanbul (a sorpresa c’era anche il venezuelano Nicolas Maduro, che più che col fronte islamico è alleato col fronte iraniano anti-Trump). Non è tanto particolare quello che ha detto il capo di stato iraniano, se si pensa che Teheran non riconosce Israele, e considera la Palestina come comprendente tutta la terra santa, compreso il territorio dello stato ebraico. Durante l’incontro anche il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha provato a infiammare la platea, chiedendo compattezza al fianco dei fratelli palestinesi e chiamando Israele “uno stato occupante”. Soprattutto Erdogan ha provato ad attaccare gli Stati Uniti: ne ha chiesto l’esclusione dal processo di pace perché sono “di parte” (intendendo pro-israeliani), trovando un ottimo argomento per attaccare Washington. Ankara pensava che con l’insediamento di Trump le cose potessero cambiare nei freddi rapporti bilaterali con gli americani, in particolare Erdogan sperava nell’estradizione di Fetullah Gülen, il chierico nemico politico del presidente, accusato di aver ordito il golpe dello scorso luglio. Le cose invece sono andate diversamente, e il turco è stato costretto ad avvicinarsi di più alla Russia per cercare un suo (effimero) spazio; “effimero” perché la partnership è assolutamente controllata da Mosca, per esempio la richiesta di togliere Washington da arbitro sul conflitto israelo-palestinese perché non imparziale è allineata esattamente con un’uscita identica del Cremlino, che l’ha usata per accreditare le proprie credenziali in sostituzione (ed è sponsorizzata apertamente soltanto dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, che deve per forza di cose prendere certe posture, come la conclusione del vertice con cui s’è riconosciuta Gerusalemme Ovest come capitale palestinese).
DAL GOLFO POSIZIONI MORBIDE PER PRAGMATISMO
Che Erdogan si trovi nello stesso asse con l’Iran, e con la Russia, non è nemmeno questa una notizia. La Turchia si è associata agli altri due stati per cercare di giocare un ruolo nel processo politico che seguirà la guerra siriana (dove i turchi sostenevano i ribelli sconfitti, mentre russi e iraniani il regime vittorioso); da quello, in effetti, dipenderanno diversi equilibri in Medio Oriente. La notizia, semmai, è che a queste reazioni dure di Iran e Turchia non sono seguite prese di posizione altrettanto arcigne da parte del mondo arabo – in molti hanno inviato al summit dell’Oic segretari e non i capi di stato e di governo, per esempio. E il motivo è che per il momento paesi come l’Arabia Saudita, o gli Emirati Arabi, o la Giordania, sebbene abbiano grande presa sulla popolazione palestinese, non vogliono infiammare lo scontro per non innervosire troppo Israele, perché il quadro che si è dipinto nella regione non vede più lo stato ebraico come un rivale, ma come un partner nel confronto a tutto campo per contenere l’enorme influenza iraniana. La Repubblica islamica, nemica esistenziale sia delle monarchie del Golfo che della democrazia israeliana, ricambia, e sceglie la leva palestinese per dividere quest’allineamento discreto tra Tel Aviv e Riad (e Abu Dhabi, o il Cairo).