Secondo un’indiscrezione arrivata la sito specialistico Defense News, gli Stati Uniti starebbero lavorando per modificare il regime internazionale che disciplina le esportazioni di velivoli senza piloti armati per i paesi che hanno aderito al Regime di controllo delle tecnologie missilistiche (acronimo inglese: Mtcr). Su queste colonne, Stefano Pioppi fa un’ampia analisti tecnica del problema dietro al veto del trentennale trattato – al quale aderiscono Stati Uniti, Russia e altre 33 nazioni produttrici di armi – ma la questione sulla vendita dei droni è anche parte di un dibattito interno alla politica americana che sta in piedi da tempo. Sostanzialmente, i politici in coppia con i produttori temono di perdere fette di mercato davanti alla concorrenza. Ci sono alcuni paesi che non hanno aderito al Mtcr che si stanno portando avanti con gli affari e stanno sfruttando particolarmente il momento: uno su tutti, la Cina, e in una regione specifica, il Medio Oriente.
LA FABBRICA CINESE IN ARABIA SAUDITA
Uno dei 65 miliardi di dollari di accordi chiusi durante la visita di marzo di re Salman d’Arabia Saudita in Cina è stato proprio l’acquisto di droni cinesi. Non solo, Riad ha raggiunto un’intesa con Pechino per costruire la prima fabbrica mediorientale per la produzione di UAV armati: il rogito è stato siglato il 16 marzo dalla King Abdulaziz City for Science and Technology (KACST) e la China Aerospace Science and Technology Corporation (CASC). Da questo verrà costruito in territorio saudita il CH-4, un drone che a un occhio non esperto può sembrare identico all’americano Reaper (il prodotto della General Atomics che è uno dei più utilizzati nelle campagne di osservazione e targeting statunitensi in giro per il mondo, ed è anche uno di quelli che Washington vorrebbe sbloccati dalle modifiche sul Mtcr). Durante la Defence Exhibition and Conference (IDEX) di Abu Dhabi, a febbraio di quest’anno, la Saudi Technology Development and Investment Company (TAQNIA) e la China’s Aerospace Long-March International Trade (ALIT) avrebbero già stretto l’accordo per creare la linea produttiva in Arabia: la prima è una sussidiaria del fondo di investimenti di Riad, l’altra è la società governativa di Pechino che si occupa dell’import/export nel settore delle tecnologia dell’aerospazio. Per una presidenza americana che punta a costruire certi accordi economico-strategici per rilanciare l’America First, certe iniziative cinesi sono la quintessenza del detestabile.
GLI AFFARI REGIONALI…
L’idea alla base dell’investimento cinese in Arabia Saudita è piantare il proprio imprinting nella regione: lo stabilimento sarà il terzo fuori dalla Cina (un altro è in Pakistan, paese che Pechino sostiene anche sotto l’aspetto militare in contrasto con l’India filo-americana, e in Myanmar). L’obiettivo è quello di abbassare ancora i costi di produzione e rendere i propri prodotti più appetibili per gli acquirenti mediorientali: il Ch-4 è già in uso tra le forze aere saudite, egiziane, giordane e irachene, tutti paesi che sono clienti di armi americane, che da tempo chiedono di avere la possibilità di disporre di UAV armati, che però se la vedono negata/rinviata da Washington non solo per questioni tecniche, ma anche etico-morali. Fino a oggi la regione è stata un bacino d’influenza americana, dove le aziende statunitensi hanno trovato ottimi acquirenti, anche se tra governi non proprio integerrimi: ora le cose stanno cambiando, e il principio di non influenza cinese si sta trasformando in un’assertività operativa. Per esempio: qualche giorno fa, durante la parata annuale della forze armate del Qatar, si è scoperto che Doha ha nel suo arsenale alcuni missili d’artiglierie di precisione Made in China – per capire la portata della questione in un’immagine: in Qatar si trova al Udeid, la base strategica del CentCom, il comando che segue le operazioni del Pentagono dall’Egitto all’Afghanistan.
… E LA DIFFUSIONE CINESE
Secondo l’ultimo report dell’istituto Sipri di Stoccolma, gli stati mediorientali importano l’89 per cento delle armi di cui dispongono le loro forze armate; un peso relativo che equivale a un 29 per cento su scala mondiale. E si tratta di un mercato in espansione. Faccende come il confronto tra Iran e Arabia Saudita, e i vari spin-off conseguenti (vedi la crisi in Qatar, ma anche l’inserimento di attori esterni), sono argomenti profondi che segneranno il futuro del Medio Oriente. E per questo c’è una corsa – in termini di tempo e quantità – agli armamenti, e la Cina ha le mani libere dai trattati internazionali, la manodopera e la tecnologia (acquisita anche con operazioni di spionaggio industriale) per entrare nella partita-vendite. Il mercato degli armamenti è una cartina di tornasole per l’alta frammentazione dell’ordine mondiale. Industria dei droni a parte, gli obiettivi profondi dietro alle mosse di una Cina affamata di petrolio sono ottenere maggiori forniture dal regno (e a questo si legherebbero anche i movimenti sulla privatizzazione di Saudi Aramco) per sostenere il suo sviluppo economico interno, con l’Arabia Saudita che migliorerebbe le sue infrastrutture con l’aiuto tecnologico della Cina. Quando il presidente Xi Jinping si è recato a Riad a gennaio, i due paesi hanno promesso di formare un partenariato strategico globale e promuovere la cooperazione industriale in linea con lo schema commerciale e infrastrutturale “One Belt, One Road” di Pechino.