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La Cina sbarca nel Golfo. Con le armi

Tre giorni fa, durante la parata nazionale annuale delle forze armate qatarine, hanno sfilato i sistemi di lancio missilistici che Doha ha comprato dalla Cina. Tecnicamente vengono definiti Joint Attack Rocket & Missile systems (JARMs) e sono dei missili terra-terra (tipologia nota come SY400) dal raggio di poche centinaia di chilometri. Se ne sono visti due, di questi sistemi, montati su due mezzi articolati a otto assi (lanciatori mobili) pitturati col desert camo classico; tutti prodotti dalla China National Precision Machinery Import & Export Corporation (CPMIEC).

Mentre le riprese televisive non hanno affatto indugiato su questi sistemi missilistici, agli osservatori non ne è sfuggita la presenza: il primo a segnalarlo su Twitter è stato Joseph Dempsey dell’International Institute fo Strategic Studies (Dempsey nota anche che potrebbe esserci stata una modifica del sistema per trasportare missili più potenti, i BP-12A, prodotti dalla Sichuan Aerospace Industry Corporation, SCAIC).

Secondo un cablo del 2009 del dipartimento di Stato americano, gli “SY400 sono commercializzati come un sistema da 150-200 km che trasporta una testata da 200-300 kg, utilizza un lanciatore che trasporta otto missili ed è in grado di raggiungere una precisione di 50 metri”. Presentato per la prima volto all’Airshow di Zhuhai nel 2008, l’Esercito di liberazione popolare cinese classifica il sistema come artiglieria a razzo di precisione: non ce ne sono molte immagini in circolazione, perché vengono tenuti sotto copertura discreta per proteggerne le tecnologie. Quel cablo americano sottolinea anche che le imprese cinesi hanno però fatto in modo di pubblicizzare le vendite dei missili da loro prodotti in occasione di spettacoli nazionali e internazionali, o in parate come quella sul lungomare di Doha.

La questione dell’acquisto di componentistica militare cinese da parte del Qatar va indubbiamente inquadrata nel contesto regionale. Per esempio: il sistema ha fatto la sua prima apparizione pubblica con una crisi in piedi da mesi, da quando l’Arabia Saudita e gli altri stati arabi e del Golfo hanno tagliato i rapporti diplomatici con Doha, formalmente per il suo sostegno al terrorismo e all’avventurismo iraniano in Medio Oriente. In questa crisi si sono intromessi molti attori esterni, tra cui per esempio gli Stati Uniti, che nonostante i legami militari col Qatar (dove si trova l’hub del comando del Pentagono che si occupa del Medio Oriente), hanno spostato il proprio peso sulla linea saudita. Questi movimenti sono parte di un più ampio confronto tra Riad e Teheran, le due potenze che si contendono il potere regionale; e su tale competizione, Washington è naturalmente al fianco del Regno, mentre la Repubblica islamica iraniana gode della partnership con la Russia (in questi giorni il portabandiera della postura aggressiva anti-Iran dell’amministrazione Trump, il direttore della Cia Mike Pompeo, era in visita a Riad).

La Cina si sta inserendo, secondo un proprio interesse, all’interno di questa polarizzazione. A gennaio dello scorso anno, parlando davanti ai rappresentati della Lega Araba al Cairo, il presidente cinese Xi Jinping ha detto: “Invece di cercare un rappresentante in Medio Oriente, promuoviamo i colloqui di pace; invece di cercare qualsiasi sfera di influenza, invitiamo tutte le parti a unirsi alla cerchia degli amici per l’Iniziativa Belt and Road; invece di tentare di riempire il vuoto, costruiamo una rete di partnership cooperativa per risultati vincenti”. Si tratta di una rottura della “non-interferenza” storica cinese nella regione, attraverso una politica assertiva con cui Xi comunque non vuole crearsi nemici, ma segnare la presenza. Un aspetto centrale nel confronto con gli Stati Uniti, che fino a pochi anni fa controllavano il quadrante mediorientale. E non è una novità che Pechino punti a farlo anche con le armi. Nel 2016 la Cina ha costruito un sua base militare in Gibuti, e sempre lo scorso anno ha piazzato una fabbrica per la costruzione di droni armati in Arabia Saudita, mentre da anni ormai ha iniziato a vendere nella regione i propri armamenti; una testimonianza di queste vendite è un report da poco prodotto dal Conflict Armament Research sulle armi usate dallo Stato islamico: molte sono Made in China, finite tra le mani dei baghdadisti quando via via hanno conquistato postazioni dell’esercito iracheno, siriano o dei ribelli in Siria (a cui quelle armi le avevano passate le nazioni del Golfo che si si sono opposte al regime). 

(Foto: Twitter)


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