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Stiamo perdendo la guerra cyber contro la Russia. L’allarme della comunità intelligence americana

Due giorni fa il Washington Post ha pubblicato un op-ed scritto da Michael Morrell e Mike Rogers sulla continuazione delle ingerenze russe all’interno del dibattito pubblico americano utilizzando i social network, in un set di metodi – che mirano a creare divisione – del tutto simile alle interferenze viste durante le elezioni presidenziali del 2016. I due autori, rispettivamente ex direttore della Cia ed ex capo della Nsa (due fondamentali agenzie di intelligence americane) scrivono, il giorno di Natale – una data significativa, perché nell’ambito dell’atmosfera rilassata e feriale c’è più tempo anche per leggere –, che “gli Stati Uniti non sono riusciti a stabilire deterrenza all’indomani dell’interferenza della Russia nelle elezioni del 2016. Sappiamo di aver fallito perché la Russia continua a utilizzare in modo aggressivo l’aspetto più significativo del suo kit di strumenti [visti] nel 2016: l’uso dei social media come piattaforma per diffondere la propaganda progettata per indebolire la nostra nazione”.

IL METODO CONTINUA E SI DIFFONDE

È un giudizio secco, preoccupante. I due ex leader dell’Intelligence Community americana – che, per ricordare, ha già formalmente condannato il Cremlino per aver diretto le operazioni di interferenza durante le presidenziali – citano le ricerche dell’Alliance for Secure Democracy del German Marshall Fund (think tank di Washington di cui entrambi sono consiglieri) e riprendono casi espliciti. Per esempio, quando la Keurig (ditta che fa caffettiere nel Vermont) decise di chiedere alla Fox di ritirare la pubblicità dei suoi prodotti durante gli show di Sean Hannity perché l’anchorman più amato dal presidente Donald Trump aveva classificato quelle interferenze come una bazzecola, gli account Twitter controllati dal Cremlino avevano alzato una campagna di boicottaggio contro la società sotto l’hashtag #boycotkeurig. È solo uno degli esempi, ma quello che secondo Morrell e Rogers è più preoccupante è proprio che questo genere di operazioni non sono state limitate soltanto al periodo elettorale, ma continua tuttora. E ancora peggio, ormai sono diventate uno standard copiato da altri, come i cinesi a Taiwan, o dai turchi contro l’Europa.

IL CONTESTO

Il sovrapporsi di un presidente che non vuole attaccare con forza quella campagna (al momento non è ancora chiaro se soltanto per evitare danni di immagine, visto che la sua vittoria potrebbe esserne stata influenzata, o per collusioni; questo sarà la grande inchiesta “Russiagate” a stabilirlo) e la superficialità e il complottismo con cui molti  affrontano la questione, ha permesso e permette la continuità delle ingerenze russe negli Stati Uniti. Schemi simili altrove – anche in Italia. In un altro articolo uscito sempre sul Washington Post nello stesso giorno, si scrive a proposito delle contromisure americane a queste interferenze: “Alla fine, i grandi piani sono morti di disaccordi interni, il timore di peggiorare le cose o una convinzione errata nella capacità di recupero della società americana e delle sue istituzioni democratiche”. Così non è stato in America, così rischia di non essere in futuro in Italia, per esempio, dove il tema della disinformazione russa (noto, cruciale, enorme) è degradato come una bega da campagna elettorale.

LA RISPOSTA LENTA

La risposta americana è stata lenta e burocratica, dicono una dozzina di fonti del WaPo (prese tra Casa Bianca, Pentagono, intelligence); frammentaria. Il secondo articolo prende in considerazione per esempio il caso di un’autrice di CounterPunch  – sito di sinistra americano – di nome (falso) Alice Donovan: le intelligence sanno che è un troll che scrive sotto spinta del Cremlino su argomenti che possono essere percepiti come divisivi dall’opinione pubblica americana, ma i suoi pezzi continuano a uscire (verso la fine di novembre, un giornalista del WaPo ha informato Jeffrey St. Clair, l’editore di CounterPunch, di essere a conoscenza che l’FBI sospetta che Donovan sia un personaggio del governo russo, ma non ha ricevuto risposta). Non solo: “Molti nella Casa Bianca di Trump, compreso il presidente, minimizzano gli effetti dell’interferenza russa e si lamentano che i rapporti dell’intelligence USA sulle elezioni del 2016 siano stati armati da democratici che cercano di minare Trump”. Ma, “dovremmo avere ogni aspettativa che ciò che abbiamo visto l’anno scorso non sia un affare unico”,dice Douglas Lute, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti alla Nato. Secondo il giornale americano, nonostante segnali sugli indirizzi russi avrebbero dovuto essere chiari già dal 2005, anno di fondazione di RT, il momento discriminante è stato la presa della Crimea nel 2014, quando l’azione clandestina armata a terra fu accompagnata da una densa campagna di disinformazione online guidata dal Gru, l’intelligence militare di Mosca – il lavoro di un team addetto alla guerra psicologica e spostato nel settore della disinformazione (astroturfing è la definizione tecnica, ossia nascondere lo sponsor dietro un contenuto veicolato e alterato) è dimostrato giornalisticamente in un terzo articolo uscito a Natale sempre sul WaPo e basato su un report interno del Gru ottenuto dal giornale (qui il sito di fact checking Bellingat ha posto alcune domande sull’inchiesta).

I TENTATIVI ZOPPI AMERICANI

Nel racconto del WaPo c’è il tentativo dell’amministrazione Obama di arginare questa campagna di disinformazia; gli sforzi di Richard Stengel (ai tempi sottosegretario alla diplomazia pubblica del Dipartimento di Stato), inizialmente addetto al dossier; l’inizio delle trasmissioni del media governativo Voice of America in russo come primo asset operativo; la piccola squadra del dipartimento di Stato creata per twittare sull’Ucraina surclassata dai troll russi; il Director of National Intelligence, James Clapper, che chiedeva esplicitamente alle agenzie di “non emulare i russi” e non creare profili sui social network falsi per diffondere contro-propaganda; l’uso degli analisti come influencer terzi e tersi. A un certo punto, a dicembre dello scorso anno, un gruppo di funzionari militari americani arrivò a Bruxelles alla sede della Nato e presentò il problema agli alleati: gli europei, racconta Lute al WaPo, risposero che quello era esattamente ciò che vivevano da anni. Washington era completamente impreparata alle interferenze russe all’interno della vita democratica americana, e riprendendo l’analisi di Morrell e Rogers, ancora lo è: e adesso, invece di diffondere messaggi per rafforzare Trump, Mosca è tornata su un obiettivo di lungo periodo, ossia seminare discordia nella società statunitense e minare l’influenza globale americana.

LA LINEA DELL’ATTUALE CASA BIANCA

I funzionari che hanno parlato col WaPo rivelano che da questa primavera il Consigliere per la Sicurezza nazionale, HR McMaster, e il suo team hanno pensato un programma di controspionaggio per contrastare le attività russe, ma anche questo ha incontrato le resistenze di chi all’interno dell’amministrazione – per esempio il consigliere per l’Homeland Security di Trump, Tom Bossert – vorrebbe evitare l’uso di strumenti offensivi contro la Russia anche nel campo cyber. Il piano è anche rallentato da un presidente che sembra considerare l’ingerenza russa come “un attacco alla sua legittimità”, scrive il WaPo. Altro timore: le intelligence americane chiamano il presidente russo Vladimir Putin con un soprannome programmatico, “Mr. Preemption”, ossia è un tipo che se pensa che qualcuno possa attaccarlo, lui lo attacca prima. E questo è, ed è stato lo scorso anno, una delle paure più grosse a Washington: risposte aggressive potrebbero scatenare un’attività ancora più intesa, su un campo di battaglia in cui per il momento la Russia è in vantaggio.

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