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Steve Bannon candidato presidente nel 2020? Così l’ex stratega di Trump si fa strada fuori la Casa Bianca

breitbart

La domanda, quasi una provocazione, è stata lanciata da Vanity Fair con un’attenta e puntuale analisi dedicata a Steve Bannon (nella foto) e alle sua ambizioni politiche. Il titolo dell’articolo rende bene l’idea: “I have Power. Is Steve Bannon running for president?”.

La parabola politica dell’uomo che ha plasmato la dottrina dell’America First è tra le più interessanti che si siano intersecate con la presidenza di Donald Trump e la nuova amministrazione americana. Da qualche mese a questa parte, con lo stesso interesse, si guarda al futuro del fondatore di Breitbart, sempre più lanciato verso una corsa in solitaria per difendere quelle idee di cui Trump si è fatto promotore nel 2016 in una campagna elettorale che ha incendiato gli animi degli americani e sancito la vittoria del Make America Great Again.

Bannon, uomo di punta in campagna elettorale, poi stratega del presidente alla Casa Bianca, è oggi più che mai inquadrabile come attivista politico, repubblicano fuori dagli schemi e outsider che gioca una partita assai complicata sulle cui sorti non è possibile fare previsioni: cosa farà da grande? A questa domanda cercano di rispondere non solo i giornalisti, gli analisti e i commentatori politici ma anche i nomi più in vista dell’amministrazione, incerti e in parte preoccupati dal ruolo che l’ex stratega potrà avere in vista della tornata elettorale del 2020. Le tante incognite che pesano su questo interrogativo dipendono in gran parte dal rapporto con Trump e con quel popolo che ha legittimato e sostenuto il tycoon di New York City.

Che Bannon avesse una forte influenza su Donald Trump è comunemente riconosciuto. Che l’ex stratega del presidente continuasse ad esercitare tale influenza e a far valere le proprie posizioni una volta lasciata la Casa Bianca è un fatto su cui non tutti avrebbero scommesso. Il 2017 è stato l’anno dell’ingresso trionfale degli uomini del presidente allo Studio Ovale ma anche l’anno in cui Trump ha dovuto fare i conti con la complessità del governo e addossarsi scelte difficili, sofferte, tra cui quella di chiedere proprio all’amico fraterno Steve un passo indietro. Sulla decisione di estrometterlo da quell’incarico di potere è stata determinante la spinta normalizzatrice partita dagli ambienti più moderati della Casa Bianca, ma anche la preoccupazione e gli attriti emersi da parte dei familiari e più stretti collaboratori del presidente. È ormai risaputo che i rapporti con Jared Kushner e Ivanka Trump non fossero proprio idilliaci, per usare un eufemismo. In diverse circostanze sarebbero emerse delle contrapposizioni insuperabili tra lo stratega e i familiari di Trump.

Anche per tali ragioni solo pochi mesi fa, nell’estate di quest’anno, Bannon ha dovuto rinunciare alla sua poltrona alla Casa Bianca. Nonostante ciò, in molti scommettono che la sua capacità di influenza e l’abilità di pesare in modo determinante sulle decisioni di Trump ancora persistano. Secondo alcuni tale ascendente sarebbe persino più forte dei mesi in cui ha lavorato in una posizione istituzionalmente riconosciuta.

Quello tra il fondatore di Breitbart e Donald è infatti un rapporto di amicizia e stima reciproca, fondato in buona parte sulla condivisione della stessa visione del mondo e degli Stati Uniti. Non è ancora chiaro se sia l’uno ad influenzare l’altro o viceversa. Fatto sta che in campagna elettorale la loro ideologia, sorretta da un realismo spinto all’eccesso, è divenuta una miscela esplosiva in grado di incendiare l’animo di tanti americani stanchi della politica parlata e troppo lontana dalla persone comuni, quelle persone a cui ancora oggi Steve Bannon continua a parlare, incessantemente, in convention locali o nelle piazze di piccole cittadine lontane miglia e miglia da Washington, senza fare distinzioni di autorevolezza o prestigio.

A pesare, dunque, sul futuro di entrambi è proprio il rapporto di amicizia che da tempo li lega. In una recente dichiarazione ai media americani, Bannon avrebbe detto di essere pronto a fare un passo in avanti e a proporsi per la Casa Bianca solo ed esclusivamente se Trump decidesse di non candidarsi. A prevalere sembrerebbe tuttora una dinamica di rispetto verso il presidente. In più occasioni lo stesso Bannon avrebbe affermato di lavorare nell’esclusivo interesse di Donald e del Make America Great Again, anche a costo di creare una frattura insanabile con quell’establishment repubblicano che ha sempre e strenuamente combattuto.

Per la sua indiscussa capacità di influenzare l’elettorato americano l’ex stratega è stato inserito da Foreign Policy nella lista dei Global Thinkers dell’anno che va chiudendosi. Una posizione di autorità, prima di tutto sulla Casa Bianca, che nei fatti continua ad esserci nonostante in molti, forse troppi, si siano affrettati a dichiarare chiusa un’esperienza che pure ha avuto un peso enorme per il presidente degli Stati Uniti sin dalla campagna elettorale.
Se poi si guarda a tutti i provvedimenti che Trump ha adottato e che sarebbero stati quantomeno sponsorizzati, se non direttamente voluti da Stave Bannon c’è da rimanere stupiti. Nell’arco di pochi mesi e in una prima esperienza di governo, sin dal venti gennaio scorso, lo stratega ha lottato con successo per far passare la propria linea in tutte le decisioni della Casa Bianca, basti anche solo pensare alle politiche anti-immigrazione e al Muslim Ban, all’uscita dalla Trans Pacific Partnership o anche, last but not least, al trasferimento dell’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.

Proprio con riferimento a quest’ultima decisione presidenziale è possibile leggere alcune delle dinamiche che spiegano la capacità di influenza di Bannon.

Come riportato da Formiche.net
(), il legame tra una parte della comunità ebraica statunitense e l’ex stratega della Casa Bianca è sempre stato fortissimo. Non si tratta solo di una condizione dettata dall’opportunità politica ma di una condivisione degli stessi valori e di una uguale visione del mondo. Allo stesso tempo, Bannon condivide con le masse americane il senso di stanchezza e l’avversione verso una classe politica troppo lontana dalla gente. Le invettive contro Washington e le lobby di K Street sono una costante del suo pensiero. La sfiducia verso i burocrati in giacca e cravatta si è presto trasformata in vera e propria avversione nei confronti di coloro che non hanno voluto e non hanno saputo porre un freno all’immigrazione e all’invasione degli Stati Uniti da parte degli stranieri. Un’invasione reale e anche metaforica, se si pensa alla mancata difesa dei posti di lavoro americani e al mancato contrasto alla globalizzazione, alla competizione sfrenata da parte degli altri Paesi che si sono approfittati della scarsa attenzione statunitense. Condizione valida anche per gli alleati americani, se si pensa alla NATO e alla protezione militare ottenuta dagli USA senza mai chiedere nulla in cambio. Tutto questo è America First.

Tutto questo è la base di pensiero da cui è nato il motto “Make America Great Again”, motto di Trump e di Bannon, che dunque risulta essere più influente che mai sull’amministrazione, nonostante la parziale uscita di scena. Un’uscita che potrebbe essere solo momentanea se si pensa che nei fatti lo stesso Trump non si è mai discostato dalle posizioni dell’amico e consigliere, anche quando dai suoi familiari e più stretti collaboratori giungevano inviti alla prudenza. Ancora una volta l’esempio lampante è dato dalla vicenda di Gerusalemme. Kushner avrebbe in tutti i modi spinto verso una soluzione più equilibrata e meno netta. La storia recente ci offre un racconto diverso, la cui prosa è assai più vicina a Bannon e al suo pensiero.

Se il 2017 è stato, dunque, l’anno del fondatore di Breitbart nonostante tutto e tutti, non è possibile fare previsioni sul futuro. La sua capacità di influenza e la sintonia con l’America dimenticata da Washington potrebbero riservare delle sorprese inimmaginabili.


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