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Signore e signori, benvenuti al gran ballo delle elezioni 2018

Sciolto il Parlamento, è tempo di bilanci. Possiamo quindi dire con certezza che sono due le date “memorabili” della legislatura che si è chiusa in queste ore, cioè il 22 febbraio del 2014, quando giura al Quirinale il governo di Matteo Renzi e il 4 dicembre 2016, quando si celebra il referendum sulla riforma costituzionale fortemente voluto (e perso) dall’allora premier e segretario del PD.

È quindi chiaro che va a Renzi il riconoscimento di protagonista assoluto della stagione politica che ci stiamo lasciando alle spalle, tanto è vero che proprio con lui ha prima fatto un accordo e poi polemizzato aspramente Silvio Berlusconi, contro di lui si sono battuti in questi anni tutti gli esponenti del M5S e per mettere in crisi lui un pezzo della sinistra, con D’Alema e Bersani a guidare le operazioni, ha lasciato il PD.

Renzi ha manovrato con grande efficacia nella prima parte della legislatura, arrivando a Palazzo Chigi dopo pochi mesi di governo Letta e con il sostegno decisivo di Giorgio Napolitano, preoccupato quest’ultimo della tenuta di una coalizione di centro-sinistra con numeri ballerini in Parlamento (al Senato in primo luogo).

Dalla campagna referendaria in poi però è entrato in una fase diversa, faticando molto a trovare il senso del suo agire politico, come dimostra la scellerata decisione di istituire la commissione d’inchiesta sulle banche, cui proprio ieri il premier Gentiloni ha riservato dure e condivisibili parole di critica.

Da poche ore però siamo in campagna elettorale e, per la prima volta da 26 anni a questa parte (elezioni del 1992), voteremo con legge d’impianto proporzionale, cioè una vera e propria rivoluzione per le logiche più recenti del nostro sistema.

Ma soprattutto abbiamo una situazione politica che mai si è verificata nella storia d’Italia, comprendendo il Regno oltre che la Repubblica. Infatti, oggi abbiamo tre “poli” tutti compresi fra il 25 e il 35 % dei consensi, anche se considerare unito quello di sinistra (PD+LeU) è allo stato impossibile (ma non sarà così dopo le elezioni).

Abbiamo cioè una situazione potenzialmente esplosiva: protagonisti della vita politica “forgiati” nella logica dell’uninominale, in cui è chiaro chi vince e chi perde, costretti dal prossimo mese di marzo ad agire in un ambiente del tutto nuovo, anche se “antico”: quello in cui bisogna fare accordi (e sarà tempo di smettere di chiamarli inciuci).

D’altronde questa è la situazione che sta fronteggiando Angela Merkel a Berlino, tanto per fare un esempio. E lo stesso ha dovuto fare per formare il suo governo il giovane primo ministro austriaco Sebastian Kurz, cioè accettare una coalizione con chi era suo avversario in campagna elettorale.

Vivremo cioè a breve una forte rottura di continuità tra la campagna elettorale e le scelte successive, che andranno gestite con grande buon senso anche per non apparire indigeribili per l’opinione pubblica.

Servirà, tanto per fare un esempio, che a destra si sappia riconoscere che il ministro Minniti ha condotto una politica condivisibile sui migranti, così come servirà a sinistra ammettere che sulle tasse è necessario dare un forte segnale alle imprese a alle famiglie.

Insomma, per fare accordi servirà grande pazienza e molto buonsenso, sotto l’accorta guida del Capo dello Stato (non a caso di solida tradizione democristiana). Questo dunque lo scenario più probabile la mattina del prossimo 5 marzo, all’indomani della chiusura dei seggi.

In alternativa c’è solo la vittoria del centro-destra, certamente possibile ma, con questa legge elettorale, improbabile.

Allacciamo le cinture, da oggi si inizia a ballare.


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