A Capodanno il presidente nordcoreano Kim Jong-un ha tenuto il discorso alla nazione e ha detto una cosa molto importante: alle Olimiadi invernali che si terranno tra un mese in Corea del Sud potrebbe partecipare la delegazione del Nord. È un’apertura, è vero, ma anche una posizione strategica (vedremo): non sarà una delegazione enorme (dozzine di atleti e accompagnatori, bensì solo due pattinatori, ma questa è un aspetto tecnico), però quello che dice Kim significa — in ultima analisi — dimostrare di aver intenzione di iniziare a chiedere a Seul di risolvere insieme i problemi della penisola coreana. Anche se, ovviamente, non c’è nessuna certezza che queste eventuali linee di dialogo possano proseguire oltre il periodo olimpico: soprattutto occorre tener conto che Kim ha già detto più volte di non essere disposto a rinunciare all’arma atomica, che è l’elemento centrale.
Il valore del messaggio è infatti rimasto ovattato da un passaggio del discorso del leader del Nord che ha maggior potenza sensazionalistica. Il satrapo non può perdere occasione per rimarcare la linea dura armata — è lì che indirizza gli investimenti nazionali, affamando letteralmente il suo popolo e dunque deve far propaganda. E infatti Kim ha detto: “Gli Stati Uniti non saranno mai in grado di iniziare una guerra contro di me e contro il nostro paese. L’intero continente americano si trova all’interno del raggio delle nostre armi nucleari e il pulsante nucleare è sulla scrivania del mio ufficio. Questa è la realtà, non una minaccia”. È l’input del bottone, il più ripreso dai media, in un’immagine da film con il cattivo che ha in mano le sorti del mondo appese a un pulsante (rigorosamente rosso) sulla sua scrivania. Tra l’altro, Kim ha sottolineato che la produzione di testate sarà incrementata durante il 2018.
Il senso profondo delle aperture — per ora contingentate — di Kim sulle Olimpiadi è comunque strategico, come detto: il fine è creare un cuneo tra Seul e Washington. E incontra altre due linee. Quella cinese, per primo: Pechino chiede da sempre che gli Stati Uniti blocchino le operazioni militari congiunte con i sudcoreani, come dimostrazione a Kim che non deve temere un regime change — si chiama politica del doppio congelamento, Kim sente la cooperazione tra Washington e Seul come una minaccia, la Cina si fa garante che, in cambio del congelamento di questo segmento, Pyongyang fermerebbe la corsa al nucleare (ma forse, ormai è tardi, come ricorda “il pulsante” di Kim).
Secondo: anche Seul non esclude che la soluzione alle tensioni possa arrivare tramite il dialogo locale. Al Palazzo blu si è insediato da qualche mese Moon Jae-in, un presidente che crede in questo approccio più che nella linea dura (anche per pragmatica: Seul sa che qualsiasi scontro militare significherebbe decine di migliaia di morti in Corea del Sud). I sudcoreani hanno già fatto sapere di essere disposti a intavolare incontri di alto livello per decidere come meglio gestire la questione olimpica — questi eventuali meeting (c’è già una data: il 9 gennaio) potrebbero essere i primi, ufficiali, dal 2015 e segnare una traiettoria futura (vogliamo “ridurre le tensioni militari nella penisola”, dice il leader del Nord sottintendendo la presenza americana).