Nell’epoca dell’Internet of everything e della perenne connessione, non sono solo i rischi corsi dalle infrastrutture cyber di natura bellica a destare preoccupazione, anzi. C’è un caso che in questi mesi, più di tutti, sta dimostrando come anche le aziende di tecnologia di consumo siano diventate sempre più centrali nei dibattiti sulla sicurezza nazionale. Il riferimento è alla Daijiang Innovation Corporation (più nota con l’acronimo DJI), colosso cinese che si è ritagliato uno spazio di primo piano nel mercato degli Uav-Uas (rispettivamente aeromobili e sistemi a pilotaggio remoto).
Già ad agosto, l’Esercito statunitense aveva vietato l’uso dei prodotti della compagnia, fino ad allora ampiamente usati in tutto il Pentagono. E, con un memo redatto nello stesso mese (ma pubblicato solo nei giorni scorsi a seguito di un leak) si è appreso che anche il Department of homeland security (Dhs) ritiene i droni dell’azienda una minaccia più che reale. In particolare, DJI avrebbe utilizzato i suoi articoli (diffusi in moltissime case americane e in vendita sugli scaffali delle più grandi catene di supermercati a stelle e strisce) e l’app ufficiale di Android per rastrellare dati sensibili degli utenti. Tra questi ci sarebbero nomi, immagini, filmati, parametri biometrici, coordinate Gps, indirizzi di posta elettronica.
Queste informazioni sensibili e a volte delicatissime – come quelle riguardanti ferrovie, ponti, depositi di materiale pericoloso – sarebbero finite nella disponibilità del governo di Pechino e dei suoi apparati di difesa, sicurezza e intelligence, che potrebbero utilizzarle per opere di sabotaggio, per passarle a Paesi o gruppi ostili nei confronti di Washington o, in modo più subdolo, per ottenere vantaggi indebiti. La questione, come prevedibile, ha alzato un polverone. Da un lato, le autorità Usa si sono dette certe che “il governo cinese stia usando” i droni “di DJI come metodo economico e difficile da tracciare per raccogliere dati sugli asset critici americani”. Dall’altro, la compagnia ha replicato rigettando le accuse, rifiutando la validità delle fonti alla base del report del Dhs e annunciando nuove misure per rendere ancora più sicuri e controllabili i propri prodotti.
Tuttavia, ciò che impensierisce maggiormente, sullo sfondo di una vicenda dai contorni ancora poco chiari ma destinata a ripetersi in altre forme nei prossimi anni, è soprattutto la sfida di sicurezza posta dalla combinazione micidiale tra le potenzialità offerte dalla diffusione di alta tecnologia a basso costo e dal cyber-spazio. In questa dimensione moderna, il piano militare e quello civile risultano ormai quasi del tutto sovrapposti ed è impossibile pensare di proteggere l’uno ignorando l’altro.
Articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista Airpress