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Lo scontro tra Donald Trump e Steve Bannon è la fine dell’inizio o l’inizio della fine?

Steve Bannon

Nel bene e nel male Steve Bannon è sempre stato un catalizzatore di attenzione, dirompente e dissacrante come solo un “trumpiano” convinto sa essere. La sua parabola politica sta a Donald Trump come la corrente amministrazione sta al partito repubblicano: una dicotomia che si regge su un equilibrio precario. Eppure i rapporti personali tra il presidente degli Stati Uniti e il suo ex stratega non erano mai stati scalfiti da una manifestazione d’ira così forte come quella che da qualche ora rimbalza su tutti i media americani.

“Bannon non ha niente a che fare con me o con la mia presidenza, quando l’abbiamo licenziato non ha perso solo il lavoro, ha anche perso la testa”: con queste pesanti parole Donald Trump ha sancito la fine dell’amicizia con il fondatore di Breitbart, in una dichiarazione al vetriolo che segna la plateale presa di distanze dall’ex amico fidato, suo grande sostenitore in campagna elettorale e nei primi mesi alla Casa Bianca.

La stizzita affermazione del presidente segue alcuni commenti critici espressi da Bannon nei confronti di Donald Trump Jr e dei contatti intercorsi alla Trump Tower in campagna elettorale con persone vicine a Mosca. Secondo lo stesso Bannon quei contatti, oggi al centro delle investigazioni sul Russiagate, sarebbero stati “sovversivi e antipatriottici”.

Tanto è bastato a scatenare la dura offensiva del presidente? Probabilmente no. C’è chi legge dietro all’attacco di queste ore il risultato di un lento logoramento del nocciolo duro che ha prima proposto e poi sostenuto la candidatura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Una ferita che mette in luce la crisi profonda del trumpismo come movimento di pensiero che ha generato l’ideologia politica del “Make America Great Again”.

Da alcuni mesi Formiche.net ha rimarcato l’attivismo di Bannon e la sua crescente presenza sulla scena politica americana, fino a porre l’interrogativo su una sua possibile candidatura alle elezioni del 2020. Colui che aveva contribuito a plasmare la dottrina dell’America First si è lanciato in una corsa in solitaria sin dall’uscita obbligata dalla Casa Bianca nell’agosto dell’anno scorso. Nonostante le dimissioni dall’incarico istituzionale, l’ex stratega del trumpismo aveva continuato ad intessere rapporti negli Stati Uniti e all’estero, coccolando la comunità ebraica americana e proponendosi finanche come mediatore non autorizzato con il governo giapponese nei giorni in cui Trump intraprendeva il primo ed impegnativo viaggio istituzionale in Asia. Un attivismo che gli ha procurato non poche inimicizie tra i collaboratori più vicini al presidente. Jared Kushner e Ivanka Trump, in particolare, non hanno mai nascosto l’avversione verso i modi di fare di Bannon. I ben informati a Washington leggono nella sua uscita dallo Studio Ovale una vittoria della “presidential family” o dei Jaranka, come li ha soprannominati lo stesso Bannon.

Come spesso accade nelle grandi manovre politiche, la tempistica ha un significato particolare. In queste ore ci si chiede a Washington se sia un caso che la stoccata di Trump a Bannon giunga a pochi giorni dall’approvazione della riforma fiscale, un autentico successo incassato dal partito repubblicano. Quali saranno gli effetti del nuovo corso presidenziale rispetto al trumpismo duro e puro in stile Bannon? Che sia la fine dell’inizio o l’inizio della fine è tutto ancora da vedere.

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