Dopo le reazioni al libro di Michael Wolff – quello di cui mezzo mondo parla perché fornisce uno spaccato atroce del presidente americano Donald Trump e del disordine su cui galleggia la sua presidenza – arrivano le contro-reazioni, ossia le reazioni alle reazioni.
Il libro è già un bestseller, ne girano decine di versioni pirata in pdf in varie lingue (dal Golfo si segnala un’ampia diffusione della traduzione in arabo, ci dicono fonti informate), Wolff è assediato dai paparazzi come una star, le librerie (pure quelle digitali come Amazon) rimandano la consegna a due settimane anche se la vendita ufficiale è iniziata solo da un giorno, e l’editore ha le rotatorie intasate. L’onda delle reazioni è talmente lunga che scalano le vette anche i testi con nomi simili e pure altre saggi sul trumpismo (tipo “Trumpocracy” di David Frum) hanno mandato in tilt i pre-ordini.
Due giorni fa, a parlare in questa meta-vicenda è stato uno dei protagonisti assoluti: Steve Bannon, ex stratega di Trump, pensatore proto-trumpista, attore che sullo sfondo di “Fire&Fury” di Wolff (titolo completo: “Fire and Fury: Inside the Trump White House“) s’è ricavato un ruolo da Golden Globe. In uno statement inviato in anteprima al sito di informazione Axios – antitesi perfetta del suo Breitbart News: il sito è stato fondato dal creatore di Politico Mike Allen, ed è la quintessenza di ciò che conta sulla politica americana, solo fonti certificate, scrittura rapida, punti essenziali, continuo aggiornamento – Bannon ha provato a edulcorare la batosta fatta cadere sulla testa di Trump con l’intervista che Wolff cita nel suo libro. Sintesi delle dichiarazioni dello stratega: mi dispiace delle parole che ho usato, ma non smentisco ciò che ho detto.
Attenzione, prima di andare avanti. Quello che ha detto Bannon è un punto a favore dell’autore, finito molto spesso sotto attacco per aver romanzato dichiarazioni, creato situazioni, insomma, non essere l’oracolo dell’attendibilità; lunedì mattina Wolff è stato costretto a girare tutti i principali approfondimenti televisivi e affrontare le domande degli anchorman sulla veridicità di quanto ha scritto. Il Partito Repubblicano – siamo sempre nel filone “reazioni alle reazioni” – tre giorni fa aveva prontamente costruito un’infografica raccogliendo le opinioni di diversi giornalisti americani, e in molti descrivevano quanto scritto da Wolff come un mix tra verità e romanzo; per esempio, Maggie Haberman del New York Times, che gode dello status di massima affidabilità tra i corrispondenti che analizzano la Casa Bianca, diceva che ci sono dentro “molte cose vere e molte altre che non lo sono”. Quello del Gop doveva essere un tentativo per abbassare le vendite, ma evidentemente non è troppo riuscito. Wolff, reagendo alle critiche dei colleghi (forse un po’ invidiosi, perché il successo è molto legato alla tempistica: il suo è stato il primo libro del genere, altri, s’è detto, sono in arrivo ma hanno meno effetto sorpresa), ha spiegato che nel suo metodo di lavoro ha coerentemente scelto se, “a volte”, attenersi esattamente ai fatti, oppure dare “una versione degli eventi che ho ritenuto aderente alla realtà” in accordo con le fonti più fidate. Cocktail perfetto: sembra il Trump del giornalismo (copyright @gabrielsherman), dicono i critici, rompe le regole per vincere, abbinamento perfetto di scrittore e soggetto.
The reviews are in… pic.twitter.com/UNdkNbBEFF
— GOP (@GOP) 5 gennaio 2018
Fatto sta che nella dichiarazione di due giorni fa (poi) pubblicata da tutta la stampa internazionale, Bannon ha cercato di scusarsi per aver definito, nel libro, il figlio primogenito di Trump, Don Jr, un “traditore” e “antipatriottico” – il motivo era l’aver organizzato un molto discusso (e discutibile) incontro tra i collaboratori dell’allora candidato repubblicano e un’avvocatessa russa che prometteva di portare con sé informazioni compromettenti su Hillary Clinton, la contender democratica. La reazione di Trump a queste e altre anticipazioni al libro era stata furiosa: “Steve Bannon non ha niente a che fare con me o con la mia Presidenza. Quando è stato licenziato non ha solo perso il proprio lavoro, ma ha anche perso la testa”. Nell’ultima versione, Bannon non smentisce le sue idee a proposito di quell’incontro, ma aggiunge che principalmente quelle parole erano dirette a un altro importante collaboratore di Trump, Paul Manafort, che ha preceduto Bannon come capo della campagna elettorale e che è già stato incolpato di alcuni reati laterali dallo special counsel che guida l’inchiesta Russiagate.
La sostanza poco cambia, c’è solo un rimescolamento polite, e infatti lunedì, ai giornalisti a bordo dell’Air Force One, il vice portavoce della Casa Bianca, Hogan Gidley, ha detto che ormai non c’è più niente da fare: “A questo punto non si può tornare indietro”. Secondo gli insider che riempiono di informazioni i media americani, Trump è furioso e per il libro, e perché si sente tradito da Bannon, che per lungo tempo è stato il suo più intimo consigliere, e anche quando è uscito dalla Casa Bianca ha continuato a cavalcare la linea trumpiana dalle colonne del sito che dirige. Un altro giornalista di Axios, Jonathan Swan, di solito piuttosto informato, racconta che il presidente ha passato i giorni dopo le prime anticipazionial telefono, chiedendo ai suoi alleati di scegliere tra lui e Bannon: non è chiaro quanto collegato a queste attività presidenziali, ma Rebekah Mercer, storica finanziatrice repubblicana e paga assegni di Breitbart, ha fatto rapidamente uscire uno statement dissociandosi da Bannon (con il quale aveva già rotto il padre nei mesi passati).
Il libro di Wolff – che in questo momento nelle redazioni del mondo passa semplicemente come “Il Libro” – è zeppo di dettagli pesanti che arrivano a mettere in discussione la capacità di governare, la volontà di vincere (piuttosto, si scrive, Trump voleva pubblicità, ma non la Casa Bianca) e perfino la sanità mentale del presidente. Questa non è una novità: otto mesi fa era uscito un altro libro, “The Dangerous Case of Donald Trump: 27 Psychiatrists and Mental Health Experts Assess a President”, cura della psicoterapeuta i Yale Bandy Lee in cui si metteva in discussione la sanità mentale di Trump attraverso l’analisi dei suoi comportamenti (attività vietata dall’American Psychiatric Association); e c’è pure gruppo di rappresentati democratici che sta preparando una richiesta formale al Congresso affinché Trump si faccia visitare da uno psichiatra (una cosa senza precedenti).
Il presidente ha vistosamente scelto Twitter come spazio per spingere la sua difesa: mentre l’America reagiva alle rivelazioni di Wolff, Trump accusava il giornalista, definiva il libro un “fake”, attaccava i democratici, infine si definiva un “genio”. Questa è la traduzione letterale del principale tweetstorm anti-Libro di Trump: “Ora che la storia della Russia, dopo un anno di intenso studio, si è rivelata una balla totale rifilata al popolo americano, i Democratici e i loro cani da riporto, i media mainstream delle notizie false, blaterano della mia stabilità mentale e intelligenza come fecero con Reagan. In realtà durante tutta la mia vita ho avuto due grandi qualità: la stabilità mentale e l’essere, diciamo, molto intelligente. Quella corrotta di Hillary Clinton ci ha provato e, come sappiamo tutti, è caduta in disgrazia. Sono passato da essere un uomo d’affari di GRANDE successo a star della tv a presidente degli Stati Uniti (al primo tentativo). Credo quindi di essere non solo intelligente ma un genio… e un genio molto stabile!”.
Ça va sans dire che questa reazione scomposta ha scatenato la controreazione di quelli che sollevano questioni sull’idoneità mentale del presidente (con invocazioni persino al 25esimo emendamento, quello che consente al vicepresidente e alla maggioranza del Gabinetto di rimuovere il presidente dall’incarico se dovessero ritenere non “in grado di assolvere i poteri e le funzioni del suo ufficio”: per ora fantapolitica da fiction).