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Così Pechino cerca di condizionare gli Stati Uniti. Che reagiscono

I rischi di influenza e condizionamento esterno per la vita democratica degli Stati Uniti rappresentano un fenomeno piú concreto e variegato di quanto si possa immaginare. La scelta maturata con la National Security Strategy dell’amministrazione Trump, cui ha lavorato un team assai preparato di esperti che fanno capo al gen. H.R. McMaster, è stata quella di inquadrare formalemente – per la prima volta nella storia americana – non solo la Russia ma anche la Cina quale attore attivissimo nel perseguire una strategia di penetrazione all’interno del tessuto sociale, politico ed economico del Paese al fine di accrescere la propria capacità di influenza e condizionare gli assetti decisionali statunitensi.

La posizione forte, e in parte inaspettata, di Donald Trump nei confronti di Pechino ha destato non poca meraviglia e commenti preoccupati da parte della leadership cinese, che si è detta offesa per le accuse rivolte a un partner assai importante per gli USA. Che la Cina persegua ormai da tempo una silente strategia rivolta a penetrare il tessuto economico occidentale è in realtà un fatto largamente noto e riconosciuto, visibile non solo negli Stati Uniti ma anche – ad esempio – in Italia. La sensibilità su questi temi, dunque, cresce e ci si rende conto di quanto più sottile (e dunque preoccupante) possa essere l’influenza cinese se paragonata a quella russa, di gran lunga più grezza, superficiale e per molti aspetti inefficace.

Un esempio interessante di come funzionino i sistemi di condizionamento cinese viene dal mondo delle università e fa riferimento alle operazioni di penetrazione nel tessuto culturale attraverso ingenti finanziamenti (non disinteressati) al settore della ricerca. È recente la pubblicazione di un articolo su questi temi da parte del Washington Post, che ha raccontato una vicenda emblematica su come si materializza l’influenza di Pechino negli strati culturalmente più elevati della società americana.

Università del Texas, Lyndon B Johnson School of Public Affairs: solo qualche mese fa la scuola di studi internazionali dell’università ha inaugurato un centro per gli studi sulla Cina e, come di norma nel mondo della ricerca statunitense, ha pubblicato un bando aperto ai privati per la raccolta dei fondi necessari a sostenere il lavoro dell’istituto. Il direttore esecutivo del centro, David Firestein, rende noto l’interessamento da parte di una fondazione, la China United States Exchange Foundation (CUSEF), che sarebbe pronta a dirottare sull’istituto un’ingente quantità di denaro.

Quella che in apparenza poteva sembrare un’operazione di supporto alla ricerca come tante altre nascondeva in realtà un preciso disegno di condizionamento (così è stato definito) da parte di un’organizzazione rivelatasi vicina al partito comunista cinese, con l’obiettivo di condizionare l’approccio accademico e la formazione delle future classi dirigenti sui temi più cari a Pechino. Per giungere a tali conclusioni è stata necessaria l’apertura di una investigazione da parte del presidente dell’università, Gregory Fenves, e l’intervento del senatore repubblicano Ted Cruz, che ha richiamato finanche l’attenzione del Congresso sull’accaduto, dopo aver ricevuto una sollecitazione da parte di alcuni professori dell’università.

La fondazione in questione, che ha formalmente sede a Hong Kong ed è presieduta dal businessman Tung Chee-hwa, opererebbe in collegamento con la sezione del Partito Comunista cinese che organizza le attività di influenza all’estero.

Un’influenza assai più forte e visibile di quanto si possa credere. L’esempio viene ancora una volta dai fatti dell’università del Texas. Il Washington Post racconta come la fondazione cinese abbia organizzato e sponsorizzato diverse occasioni di incontro tra il direttore del centro ed esponenti vicini al governo di Pechino al fine di agevolare l’auspicato finanziamento. A seguito di tale circostanza sarebbe stata richiamata l’attenzione dei vertici accademici e del senatore Cruz, che ha espresso con parole pesanti la sua preoccupazione per l’accaduto, definendo la fondazione “uno schermo esterno del partito comunista votato ad operazioni di influenza negli USA”. Si è poi scoperto che lo stesso sistema sarebbe stato utlizzato nei confronti di altri centri di ricerca e think tank in giro per gli Stati Uniti e rappresenterebbe dunque un tassello all’interno di un mosaico più ampio ed articolato di quanto possa apparire.

La graduale presa di consapevolezza da parte americana circa la complessità e l’effettività dell’influenza cinese rappresenta, dunque, un monito per tutti gli altri Paesi, Italia inclusa, in cui lentamente si assiste ad una penetrazione a più livelli, silenziosa ma persistente. Se l’America First di Donald Trump risponde a muso duro a tale fenomeno, sarà interessante osservare in che modo si svilupperanno la sensibilità e le difese immunitarie da parte degli alleati europei.


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