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Gli Stati Uniti non scherzano. Ecco i (primi) dazi contro la Cina

La guerra commerciale dell’amministrazione Trump contro la Cina inizia (come anticipato a fine 2017) dal fotovoltaico. Il presidente americano Donald Trump ha deciso di imporre dazi del 30 per cento sulle importazioni di pannelli solari negli Stati Uniti – il rateo è per il primo anno di quattro, poi scenderà gradualmente se il bilanciamento import/produzione si adeguerà all’ottica trumpiana.

La decisione di Trump segue formalmente le raccomandazioni della US International Trade Commission, secondo la quale l’aumento delle importazioni di pannelli solari (e delle lavatrici, presto colpite anche quelle) danneggia i produttori nazionali americani – è una delle mosse consequenziali al piano strategico sulla sicurezza nazionale, che più che altro si sintetizza in sicurezza economica per gli statunitensi.

La questione dei pannelli racchiude un significato politico: si tratta di una misura commerciale contro Pechino che rimanda direttamente ai tanti claim elettorali anti-Cina, finora seguiti da azioni deboli, e allo stesso tempo segue alcune posizioni contro l’energia verde simbolo dell’ambientalismo. Il presidente che non ama trattare le tematiche ambientali e che le ha più volte derise e ritenute uno spreco di soldi e risorse, ha mosso le carte iniziali per svincolare Washington dall’accordo sul Clima di Parigi (salvo poi mandare qualche segnale di ripensamento) perché lo considera il peso maggiore del multilateralismo ambientalista.

E la green economy collegata, che ha nei pannelli fotovoltaici la sua quintessenza, è per le visioni di Trump uno dei colpi che ha affondato alcuni settori energetici americani, come per esempio il carbone. Lo standing presidenziale nei confronti del mondo carbonifero americano è più che altro politico – perché nelle realtà dei fatti le aziende energetiche l’hanno già superato come materia prima – ed è legato alla distribuzione geografica degli elettori trampiani; molti degli stati in cui si potrebbero aprire miniere di carbone, ad esempio, sono zeppi dei più convinti sostenitori del presidente.

È sotto quest’ottica che il settore fotovoltaico diventa un ottimo proxy con cui fare la guerra a Pechino: Trump non crede in quel genere di energia, dunque il contraccolpo di mercato della difesa alla produzione americana è un rischio che può essere assorbito. “L’azione del presidente chiarisce ancora una volta l’intenzione dell’amministrazione di difendere i lavoratori americani” esplicita nella nota stampa il dipartimento del Commercio.

Da notare che la Solar Energy Industries Association (l’associazione statunitense dell’industria del solare, che si tira dietro un business da 28 miliardi di dollari annui e che importa dall’estero l’80 per cento dei pannelli installati), ha già segnalato che le nuove tariffe “creeranno una crisi in un settore dell’economia che è stato trainante”, avvertendo che a rischio ci sono 23mila posti di lavoro. Va ricordato comunque che l’imposizione di una tassazione anti-dumping è stata proposta da Washington con quote dal 30 per cento in su, già nel maggio del 2012 – ossia pochi mesi prima dell’inizio del secondo mandato dell’amministrazione Obama.

La risposta cinese è già arrivata. Pechino esprime “forte disappunto” contro la decisione del presidente Trump, fa sapere tramite i media governativi Wang Hejun, a capo dell’Ufficio indagini commerciali del ministero del Commercio cinese, definendo la mossa “un abuso dei rimedi commerciali”. La Cina esporta verso l’Europa e gli Stati Uniti il 90 per cento dei pannelli solari che produce: rispetto a un produttore italiano il prezzo al watt – unità di misura per valutare il costo del prodotto – è notevolmente inferiore, creando ovviamente un livello di competizione alterato; per combattere questo genere di concorrenza esterna, l’Europa anche ha imposto una specie di restrizione: accedere agli sgravi del Conto Energia è possibile soltanto se i pannelli sono prodotti con marchio CE e seguano le certificazioni CEI EN.

Ma il messaggio di Trump è ancora a più ampio raggio. La Corea del Sud – dove si trovano i maggiori produttori del settore elettrodomestici, come Samsung, che dovrebbero essere i prossimi a essere colpiti partendo dalle lavatrici – ha annunciato un ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio contro la decisione della Casa Bianca: Seul recepisce il senso della mossa. Trump non ha buoni rapporti con il nuovo presidente sudcoreano, Moon Jae-in, mossiere dell’avvicinamento olimpico a Pyongyang – un gesto che segue le visioni personali del capo del Palazzo Blu, ma anche le linee strategiche cinesi; e non a caso, a sottolineare la delusione di Seul per i dazi sono stati per primi i media cinesi che pubblicano in inglese.

 

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