Come in molti avevano previsto, il presidente Donald Trump, pronunciando un lunghissimo discorso (80 minuti) davanti alla seduta plenaria del Congresso sullo stato dell’Unione, è stato più presidenziale che mai, ma è pur sempre rimasto Donald Trump. Questa è la lettura di Hans Noel, politologo americano, professore della Georgetown University, che questo giovedì commenterà le parole di Trump in un incontro al Centro Studi Americani assieme al professor Sergio Fabbrini. In questa conversazione con Formiche.net, Noel spiega dove è emerso, all’interno del discorso, il vero volto di Trump.
Professor Noel, Trump è stato più “presidenziale” solo nei toni o anche nei contenuti?
Non credo che ci sia alcun indizio che Trump stia cambiando il suo modo di essere, ha sempre dimostrato di saper tenere un discorso in pubblico. La prima parte del discorso è tipica di uno State of the Union Speech, specie quando ha elencato i successi per l’economia. Non appena però è passato a parlare di immigrazione, tutti i temi al centro della campagna presidenziale del 2016 sono tornati: criminalità, immigrazione e la necessità di diminuire non solo gli immigrati clandestini, ma anche quelli regolari. Insomma, non si è vista l’aggressività dei suoi tweet, ma è stato comunque Trump al 100%.
Trump sembra aver lasciato poco spazio a soluzioni bilaterali, dedicandone molto invece al programma elettorale del 2016.
A dire il vero ci ha provato. Ha assicurato che avanzerà delle proposte sull’immigrazione che i democratici apprezzeranno. Il problema è che su molti punti della sua riforma i democratici non hanno alcuna intenzione di cedere: è il caso ad esempio delle disposizioni sulle famiglie degli immigrati, che lui vuole restringere, o sulla lotteria dei visti. Se Trump scenderà a patti sul Daca i democratici tireranno fuori i soldi per il muro, ma non mi sembra che abbia intenzione di farlo.
Come ampiamente promesso, il presidente ha posto al centro del discorso l’economia. Crede che sia riuscito a convincere la classe media della bontà della sua riforma fiscale?
Trump è stato coerente con quanto annunciato alla vigilia: ha dedicato il primo terzo del discorso all’economia, spiegando che il benessere sta tornando in America. La verità è che la maggior parte delle persone non rilegge questi discorsi attraverso una lente bipartisan, ma attraverso editoriali sui giornali e le tv i giorni seguenti. I repubblicani continueranno a dire, con Trump, che questa è la più grande riforma fiscale della storia, mentre i democratici risponderanno che, tenuto conto del Pil, non si tratta di un record.
Nessun accenno all’effetto della riforma sul debito, che pure è sempre stato un argomento caro ai repubblicani.
Tutti continuano a parlare del debito, ma le soluzioni proposte sono sempre di parte. I democratici vorrebbero tagliarlo aumentando le tasse, i repubblicani riducendo i servizi. Ma alla fine della giornata la maggior parte degli elettori si preoccupa di come vive la salute dell’economia sulla propria pelle, non del debito, che per loro è qualcosa di astratto e lontano.
Trump ha chiesto al Congresso di approvare un decreto da 1,3 triliardi di dollari per la riforma sulle infrastrutture. Dove ha intenzione di prendere i fondi, appurato che non è riuscito ad abolire l’Obamacare?
È vero, Trump non ha spiegato dove prenderà i fondi per finanziare una riforma del genere, ma non ci vedo nulla di così strano, visto il contesto in cui ha parlato. È tipico del discorso sullo stato dell’Unione, non solo di Trump. Si tratta sempre di un discorso sui programmi, su quel che si vuole fare in generale, raramente si scende nel dettaglio.
Sull’immigrazione la posizione di Trump è racchiusa in una frase da lui pronunciata: Americans are dreamers too. L’accordo sul Daca è ancora lontano?
L’accordo sull’immigrazione con i democratici mi sembra in un vicolo cieco, ci sono poche speranze che vada da qualche parte. È possibile che ci sia un nuovo shutdown del governo, a meno che Trump non riesca a convincere i democratici a tenere distinti il Daca e il budget federale. Ad ogni modo questo è un tema su cui i democratici non hanno alcuna intenzione di scendere a compromessi.
Veniamo alla politica estera. Il presidente ha rivendicato le vittorie militari sull’Isis. Lei crede che la liberazione di Raqqa e Mosul sia un successo dell’amministrazione Trump?
Esattamente come la ripresa economica, anche le vittorie militari sull’Isis rientrano in parte in una più ampia strategia che precede l’amministrazione Trump, e risale ai tempi di Obama e perfino di Bush. Sappiamo che gli elettori tendono sempre a dare il merito dei recenti successi all’amministrazione in carica. Al tempo stesso, anche se Trump reclama la vittoria sull’Isis, i democratici non arriveranno mai a dargli credito per quel che è stato fatto nel suo primo anno alla Casa Bianca.
Ancora una volta Trump ha tuonato contro la Corea del Nord, preannunciando un aumento dell’arsenale nucleare americano. Si tratta di qualcosa di nuovo?
Effettivamente mi ha sorpreso. Non tanto per l’argomento in sé, Trump è sempre stato un conservatore sulla Difesa. Sorprende che abbia parlato di arsenale nucleare durante un discorso sullo Stato dell’Unione. Quanto alla Corea del Nord, in molti si chiedono ancora se quel che Trump promette di fare sia solo una favola o qualcosa di più concreto. Ultimamente però ci sono stati diversi segnali a riprova che Trump fa sul serio e vuole passare all’azione, che si tratti di un attacco preventivo o di qualcos altro che aggravi lo scontro.
Ritornando sul riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, Trump ha attaccato i Paesi che all’Onu che si schierano contro Wasghinton, ribadendo la nuova dottrina americana: se siete contro di noi, non avrete i nostri soldi.
Per decenni la logica che ha guidato gli Stati Uniti nelle relazioni internazionali è stata quella di esercitare la loro leadership, specie dopo la caduta del muro di Berlino, finanziando anche quei Paesi che erano ostili a Washington, con lo scopo di riportarli nella cerchia statunitense. Trump vede le relazioni internazionali in modo differente: gli Stati Uniti devono aiutare solo gli Stati amici, tagliando qualsiasi finanziamento a chi si oppone. È un completo ribaltamento dell’ordine liberale mondiale.