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Molti leader, nessun premier? Il paradosso delle elezioni 2018

Dal 1994, queste sono le prime elezioni senza candidati premier. Anche prima la questione era fittizia: il presidente del consiglio, come recita la Costituzione, lo vota il Parlamento su indicazione del capo dello Stato. Però con il maggioritario sapevamo che, se alle elezioni avesse vinto il centrodestra o il centrosinistra, il premier indicato sarebbe stato tizio o caio. Oggi, con il Rosatellum, non è così. L’unica forza politica che ha espressamente indicato il candidato premier in caso di vittoria è il Movimento 5 Stelle, con Luigi Di Maio. Il quale, furbescamente, si dice disponibile a duelli tv con altri candidati premier. Ma siccome non ce ne sono, il guanto di sfida lanciato dall’ex vicepresidente della Camera è una chimera. Tutti gli altri leader in campo agiscono in rappresentanza dei rispettivi partiti: Pietro Grasso per LeU, Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia, Matteo Salvini per la Lega. Ma che il gioco sia fittizio lo dimostrano le scelte di Pd e Forza Italia: in nessun manifesto compare la faccia di Silvio Berlusconi o di Matteo Renzi. Da questo punto di vista, dunque, si è tornati in tutto e per tutto alla Prima Repubblica.

Per paradosso, però, se la campagna elettorale è senza candidati premier, è dominata più che in passato dalle scelte e dal protagonismo dei leader. Che imperversano ovunque e avocano a sé ogni potere decisionale. Luigi Di Maio, per esempio, ha invaso completamente la propria scena, oscurando le altre personalità del movimento. Alessandro Di Battista sembra un lontano ricordo, Paola Taverna una foto sbadita, e pure di Virginia Raggi si parla molto meno. Tiene botta solo Roberta Lombardi, ma solo perché è candidata alla presidenza della Regione Lazio. Se è così per i grillini, figuriamoci gli altri.

Nel Pd Renzi ha falcidiato le minoranze schierando una truppa di candidati a sua immagine e somiglianza, pescando solo tra i suoi fedelissimi. Mai si era vista una cosa simile nel partito erede del vecchio Pci. Basti dire che nel 2013 Pier Luigi Bersani lasciò allo sconfitto sindaco di Firenze la possibilità di portare in Parlamento una trentina di fedelissimi. Oggi, invece, l’opposizione interna è al suo ground zero.

Lo stesso ha fatto Berlusconi in Forza Italia. Dopo che per mesi si è sbandierata la necessità del rinnovamento, con tanto di casting di giovani professionisti organizzati tra Arcore e Palazzo Grazioli, il Cavaliere ha preferito optare per l’usato sicuro, confermando quasi tutti gli uscenti: una truppa fedele ed esperta, poco incline alla ribellione, così da poterla plasmare ai suoi desideri una volta che le urne saranno chiuse. Chi di loro avrà il coraggio di fiatare quando il leader azzurro virerà di nuovo verso il Pd proponendo ai suoi un governo di larghe intese?

Il più despota, in quanto a liste, è stato però Matteo Salvini, che ha completamente spianato ogni possibile minoranza interna epurando tutti i maroniani (o maroniti, come li chiamano in Lega) e lasciando un posticino al Senato solo per Umberto Bossi.

Ma che siano i leader a tenere il pallino in mano lo si vede soprattutto dalle presenze televisive: sono Berlusconi, Di Maio, Salvini, Grasso, Meloni, Lorenzin e Lupi a farsi carico di rappresentare le loro rispettive forze politiche davanti alle telecamere, sono loro a fare più audience, sono sempre loro, secondo i sondaggisti, gli unici a far oscillare il termometro elettorale. Gli altri contano meno. In certi casi, poco o nulla.

L’unica eccezione, forse, è Liberi e Uguali: nonostante il portabandiera sia Grasso, funzionano molto bene anche Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Anzi, in alcuni casi sono andati anche meglio. Per il resto è una campagna elettorale portata avanti da uomini soli al comando, che tutto decidono, attirando su di sé le luci dei riflettori. Anche se poi nessuno di loro, probabilmente, avrà poi l’onere e l’onore di varcare l’ingresso di Palazzo Chigi. Un paradosso tutto italiano.


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