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Perché Trump non ha ancora un ambasciatore in Corea del Sud?

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Diciotto senatori democratici americani, tra cui il top ranking del Senate Foreign Relations Committee, Ben Cardin, hanno inviato una lettera all’amministrazione Trump chiedendo come mai, ancora dopo mesi, non sia stato nominato un ambasciatore in Corea del Sud. In realtà un nome pronte c’era da tempo, Victor Cha, tra i massimi esperti dell’area, ma l’amministrazione ha deciso di scartarlo – quando aveva invece ricevuto già il beneplacito sudcoreano – lasciando il vuoto (dato che il precedente ambasciatore, Mark Lippert, non un esperto di Coree a cui però è riconosciuto il merito di aver fatto un buon lavoro, era stato subito tagliato per le vicinanze con l’amministrazione Obama).

Seul non è l’unico paese, anche alleato, lasciato da Trump senza un rappresentante americano, ma il Sud è di certo quello più strategico in questa lista: è il dirimpettaio della minaccia che il presidente Donald Trump considera nevralgica per il futuro non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero pianeta, la Corea del Nord nuclearizzata. Certo, non solo: il Sud è anche uno dei principali acquirenti di armi americane, ospita un grosso contingente americano che insieme a quello giapponese ha funzione strategica nel Pacifico; è inoltre un centro economico-commerciale globale, una alleato, insomma, che Washington non dovrebbe lasciare indietro, ma in questo caso fa il paio per esempio con l’Arabia Saudita, la Germania, la Turchia, dove ancora la rappresentanza diplomatica ha la sedia più importante vuota.

Ma con Seul c’è anche un problema più pruriginoso: il presidente Trump ha un pessimo rapporto personale col suo omologo sudcoreano, Moon Jae-in. La Casa Bianca è stata dura col Sud riguardo al Thaad, per esempio, chiedendo che venisse pagata l’installazione del sistema anti-missile americano sul territorio sudcoreano; o ancora, Trump ha più volte attaccato anche la Corea del Sud perché mantiene con gli Stati Uniti una relazione commerciale impari, godendo di uno squilibrio commerciale favorevole; e che dire dei dazi contro le importazioni delle celle fotovoltaiche, che colpiscono la Cina, ma anche le ditte sudcoreane (che insieme alla Cina sono i più grossi produttori al mondo)?

Ultimamente, durante un’intervista al Wall Street Journal (un media abbastanza amico), Trump era stato velato ma chiaro: aveva dichiarato di avere, o poter avere, un’ottima relazione con tutti i leader dell’area pacifica, da Xi Jinping, presidente cinese leader della potenza nemica dell’America, fino addirittura a evocare contatti già avviati col satrapo nordcoreano Kim Jong-un. Ma silenzio a proposito di Moon.

Questo genere di atteggiamento non è apertamente ricambiato dal capo del Palazzo Blu – d’altronde nemmeno Trump è troppo esplicito – ma in Corea del Sud ci sono, e ci sono state, molte manifestazioni di scontento nei confronti di Washington, guidate anche dai fan del presidente. Sit-in sono ancora in corso nei luoghi in cui i mezzi del Thaad sono stati piazzati, e sostanzialmente c’è una parte dell’opinione pubblica che affronta la crisi col Nord con lo stesso approccio di Moon: la necessità di aprire al dialogo. In molti lo hanno votato anche perché il suo programma è stato sempre molto chiaro in questo senso, altrettanti detestano le dinamiche aggressive con cui Trump ha condotto il dossier. Anna Fifield, la capo corrispondente del Washington Post da Tokyo, ha twittato la foto di un cartello apparso davanti alla sede dell’ambasciata americana a Seul: c’è Trump vestito da nazista, un bombardiere B-1 Lancer americano come quelli che sono stati spesso inviati fino al confine col Nord come messaggio d’avvertimento a Kim, c’è una portaerei di quelle della Settima Flotta che gironzolano a largo della penisola, in primo piano c’è la scritta “War Maniac”.

Si contestano per esempio le tante, continue esercitazioni congiunte, che gli Stati Uniti intendono usare come (al momento poco funzionale) deterrenza, con cui si dovrebbe scoraggiare Kim nel procedere col programma atomico. Attualmente queste attività sono state sospese su richiesta esplicita di Moon, che le ha messe sul piatto per ottenere la tregua olimpica che permetterà a una ristretta delegazione del Nord di partecipare sotto la bandiera della Corea unita alle prossime olimpiadi invernali di PyeongChang. Ciliegina sulla torta a esacerbare le distanze tra Trump e Moon, la tregua olimpica è venuta fuori rapidamente su un percorso tutto regionale da cui l’America è stata formalmente esclusa, mentre il presidente statunitense faceva uscire notizie sulla possibilità di un attacco preemptive sempre più concreto (le ultime dicono che potrebbe arrivare fra poche settimane, dopo le Paraolimpiadi).

Tutta questo contesto è necessario per comprendere che uno dei motivi discreti per cui l’amministrazione Trump ha rimosso Cha dalla procedura di nomina è che il candidato aveva espresso perplessità sulla cosiddetta strategia del “bloody-nose“, la tecnica d’attacco militare che Trump vorrebbe usata per colpire il Nord, lasciandolo col “naso sanguinante”, inerme, sorpreso, non in grado di reagire. Da qualche mese se ne parla, da subito la presidenza sudcoreana è stata scettica ribadendo la necessità di dialogo e ricordando i rischi dell’azione (ossia, e se Kim non restasse a terra, ma reagisse d’impeto? Le simulazioni parlano di decine di migliaia di morti sudcoreani solo attraverso l’uso delle bocche di fuoco che i generali del regime hanno fatto piazzare lungo il 38esimo parallelo).

E dunque, come può il rappresentante della Casa Bianca a Seul non essere d’accordo con la strategia chiesta dalla Casa Bianca per difendere Seul, o meglio attaccare Pyongyang? I senatori democratici, nella lettera a Trump, alzano lo stesso genere di preoccupazioni di Cha, ricordando che le stesse posizioni erano emerse anche (e non solo) in un’audizione del 30 gennaio al Comitato dei servizi armati del Senato. In quello stesso giorno, a poche ore dal primo Sotu di Trump, era uscito sul Washington Post un op-ed firmato proprio da Cha (come professore della Georgetown University e senior adviser del Center for Strategic and International Studies, e anche capo dell’Asia Desk al Consiglio di Sicurezza nazionale di Bush figlio, dove aveva coniato la definizione “hawk engagement” con il Nord) in cui sosteneva che il “bloody-nose” comporta un enorme rischio per l’America. In quello stesso giorno si è saputo che Trump lo aveva voluto fuori dalla nomina.

Ha scritto Cha: “Per essere chiari: il presidente metterebbe a rischio una popolazione americana grossa quanto quella di una città di medie dimensioni (Pittsburgh, per esempio, o Cincinnati) partendo dal presupposto che un dittatore pazzo e insondabile sarà razionalmente intimidito da una dimostrazione di potere cinetico [militare] degli Stati Uniti”. Domenica 4 febbraio l’Editorial Board del Washington Post ha fatto uscire un pezzo in cui si augurava che ci siano nell’amministrazione tante persone che la pensano come Cha. I democratici hanno sollevato anche il dubbio tecnico che al presidente manchi l’autorità legale per attaccare il Nord.

Cha si era pure speso apertamente contro le idee di Trump sul rivedere il KORUS, l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud, che invece il presidente ha utilizzato per attaccare Moon. È via via diventato chiaro che uno così, nonostante fosse il più preparato per il ruolo,  nell’amministrazione Trump non avrebbe potuto mettere piede.

(Foto: Youtube)


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