Una straordinaria anomalia, che travalica leggi e trattati e che è stata lasciata colpevolmente in un cassetto mentre, invece, sarebbe stata da affrontare e, in un modo o nell’altro, sanare per evitare lo scenario attuale.
È il ragionamento analitico sul caso Eni-gas-Turchia che andrebbe composto per due ragioni di fondo: perseguire il rispetto delle norme internazionali (trattati in primis) e consentire a chi ne ha il diritto di espandere il proprio programma industriale legato allo sfruttamento degli idrocarburi.
La questione turca si pone, oggettivamente, nel solco di un unicum dell’intera area mediterranea: Ankara ha incassato una sorta di bonus a vita, grazie alla sua posizione geopolitica di cuscinetto tra due mondi, che gli consente di godere di un trattamento di favore da parte della comunità internazionale. Per cui quest’ultima ha deciso di chiudere un occhio dinanzi ad atteggiamenti che sono direttamente proporzionali ad alcune violazioni evidenti.
Lo status di player strategico è ancora il punto di forza della Turchia: da un lato è stato per anni stabile interlocutore dell’Occidente impedendo l’uscita della flotta russa al di fuori dei Dardanelli. Una specie di cane da guardia immobile dinanzi al muro eretto verso la Russia. Quindi intrecciato alle strategie della Nato di cui è membro. E, dall’altro, ecco sfruttare la sua predisposizione a giocare quelle fiches con atteggiamenti e rivendicazioni che il diritto internazionale non le riconoscono.
L’ostracismo turco verso i soggetti che si sono legittimanente assicurati i settori della zona economica esclusiva a Cipro (come le azioni di disturbo della nave ocenaografica Barbaras dal 2013) non è supportato da un appiglio normativo. Secondo il Trattato di Montego Bay del 1982 “la sovranità dello Stato può estendersi per massimo dodici miglia fino ad una zona di mare adiacente alla sua costa, il cosiddetto mare territoriale, su cui il singolo Stato esercita le proprie prerogative”.
Invece lo sfruttamento esclusivo di minerali, idrocarburi liquidi o gassosi, si estende su “tutta la propria piattaforme continentale, intesa come il naturale prolungamento della terra emersa sino a che essa si trovi ad una profondità più o meno costante prima di sprofondare negli abissi”.
Per cui lo Stato costiero (Cipro) è unico titolare del diritto di sfruttare tutte le risorse biologiche e minerali del suolo e del sottosuolo. Mentre il presidente turco Erdogan non solo lo ignora, ma ha intrapreso ormai da un triennio una quotidiana battaglia contro leggi e norme che evidentemente non lo favoriscono.
In primis il Trattato di Losanna che nel 1923, alla fine della Prima Guerra Mondiale, ha designato i confini nell’Egeo. Erdogan sostiene che sia sbagliato e propone di modificarlo, perché intende riappropriarsi di alcune isole dell’Egeo contese da Grecia e Turchia (e che nel 1996 portarono i due Stati ad un passo dalla guerra).
Inoltre il Presidente turco, che detiene nella parte nord di Cipro occupata ancora 50mila militari, vorrebbe prendere parte al grande banchetto del gas ma senza il conforto proprio del trattato di Montego Bay, anche perché la Repubblica di Cipro nord autoproclamata non è riconosciuta dall’Onu in quanto nata dopo un’invasione militare.
Ecco che quindi, alla luce di tali premesse, sarebbe auspicabile che l’Ue prendesse una posizione chiara e netta su un punto strategico: il rispetto delle regole è ancora un punto fermo di quella comunità che, come disse Platone guardando al Mediterraneo, si ritrova come rane attorno ad uno stagno?
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