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Ecco come e perché Pechino minaccia ritorsioni commerciali contro Washington

Il governo cinese risponde, contrattaccando, alle accuse statunitensi sugli abusi commerciali: la replica è affidata alle colonne del Global Times, il giornale emanazione del Renmin Ribao, ma più focalizzato sulle questioni internazionali. Il GT si muove di solito con una linea governativa più velata, e per questo affida l’accusa all’analisi di un ricercatore della Caitec, l’Accademia cinese per la cooperazione economica e il commercio internazionale, organo di studio scientifico è vero, ma comunque in diretta dipendenza del ministero del Commercio di Pechino.

Sostanzialmente si contestano le frequenti indagini commerciali intraprese dalle autorità americane a carico delle esportazioni cinesi, che secondo la tesi dell’accademico costituirebbero una violazione delle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto (secondo l’acronimo inglese) in cui la Cina è inclusa da ormai quindici anni. Non solo rischiano di danneggiare entrambi i Paesi – le due più grandi economie del mondo – ma sono dinamiche proibite dai regolamenti dell’organizzazione.

Il contrattacco è contingentato: il dipartimento del Commercio americano ha annunciato in questi giorni i risultati preliminari su una delle 94 indagini per dumping avanzate dall’amministrazione Trump contro la Cina. Nello specifico si tratta delle esportazioni di ferro cinese, e sulla base di queste ha deliberato che sono stati venduti tubi in ferro per scarichi negli Stati Uniti “a costi inferiori del 68,37 per cento e del 109,05 per cento al loro reale valore” (definizione rapida del dumping commerciale). La decisione finale è fissata al 27 giugno, messi come sono messi i numeri è evidente che il piano è alzare l’accusa di dumping lesivo per gli interessi americani; nel 2016 la Cina ha esportato negli Usa tubi e raccordi per tubi di scarico in ferro per un valore complessivo pari a 8,6 milioni di dollari.

Intanto Washington accusa Pechino di attività di dumping anche su alluminio e acciaio, e si prepara ad alzare su queste importazione dazi simili (o più aggressivi) di quelli con cui ha colpito lo scorso mese i pannelli fotovoltaici (di cui i cinesi sono i principali produttori, bersagliati già dall’amministrazione Obama nel 2012 con un’aliquota pari al 36 per cento, a cui adesso si va ad aggiungere la nuova misura).

Non solo, è prevista l’uscita a breve del report di studio ordinato dal governo sui furti di proprietà intellettuali da parte di operazioni di spionaggio industriale cinese; da ricordare in merito, che per il documento redatto dal Director of National Intelligence americano sulle minacce per la sicurezza nazionale, le attività di controspionaggio verso la Cina riguardano anche, o soprattutto, questo delicatissimo settore (già nel 2014, l’allora direttore dell’Fbi, James Comey, avvisò che le operazioni clandestine cinesi costano ogni anno “miliardi di dollari” all’economia americana). Già avviate azioni pratiche: martedì il senatore repubblicano Richard Burr, che presiede la Commissione intelligence del Senato, si è detto preoccupato per i legami con il governo cinese delle società di telecomunicazioni cinesi come Huawei Technologies e Zte, che potrebbero essere usati come vettori per lo spionaggio. La scorsa settimana il senatore repubblicano Tom Cotton e il suo collega Marco Rubio hanno introdotto alla discussione congressuale una legislazione per impedire l’acquisto di apparecchiature delle due ditte cinesi alle agenzie governative americane (praticamente una sorta di replica di ciò che è già avvenuto con la russa Kaspersky).

Pechino esplicita sui suoi media la contro-minaccia cinese: la Cina ha a disposizione una serie di misure che potrebbe adottare come risposta all’offensiva commerciale statunitense per “proteggere i propri diritti”. “Il protezionismo commerciale

È una lama a doppio taglio”, dicono i cinese, evocando la possibilità di misure tit-for-tat sull’importazione di auto americane. Poi c’è il problema contraccolpo: diversi produttori americani hanno già messo in guardia il governo sostenendo che le azioni sulle celle fotovoltaica rischiano di deprimere il mercato e il lavoro dell’energia verde, causando una perdita di competitività del settore – “Un impatto deleterio”, scrivono con un buon gioco di propaganda. Ma forse il mondo green è un warfare sacrificabile, visto che l’amministrazione americana non lo considera così cruciale (nonostante sposti 28 miliardi di dollari di fatturato ogni anno, anche grazie alle sovvenzioni federali, che però la presidenza Trump vede come un piacere alle importazioni cinesi contro “il bel carbone” americano).

Inoltre, in definitiva, potrebbero aver più peso politico – un piacere ai falchi anti-Cina sia all’interno dell’amministrazione sia tra i fun – che punitivo per Pechino. Per esempio, Lin Boqiang, direttore del China Center for Energy Economics Research della Xiamen University, ha detto alla Ecns.cn (ossia la versione inglese dell’agenzia statalizzata China News Service) che alla fine dei giochi le misure adottate dal governo americano andranno per colpire soltanto determinate aziende cinesi che negli scorsi anni avevano spostato la produzione in paesi come Vietnam e Thailandia proprio per aggirare le misure anti-dumping statunitensi; ciononostante, afferma Lin, “l’impatto non sarà così vasto, dal momento che l’industria cinese del fotovoltaico è sostenuta dalla domanda domestica, più che dal mercato statunitense”.

Ciò nonostante, Pechino ha già annunciato la volontà di rivolgersi alla negoziazione del Wto, e qui va seguita una linea geopolitica importante. L’azione americana contro il fotovoltaico – abbinata a una meno ideologizzata, ma allo stesso modo dura, contro le importazioni di lavatrici – non colpisce esclusivamente la Cina, ed è pessima anche per un altro grande produttore: la Corea del Sud. Anche Seul ha annunciato appelli all’Organizzazione, ed è impossibile non dipingere lo scenario: il presidente americano e quello sudcoreano, nonostante i due paesi siano alleati storici, sono piuttosto distanti dal punto di vista della visione del mondo, distanza esplicitata nella gestione del dossier coreano (la Casa Bianca promette “fuoco e furia”, il Palazzo Blu apre le sue porte ai notabili del regime e accetta un invito per una visita dialogante a Pyongyang). Il gioco di Pechino, che nell’area pacifica e asiatica orientale vuole giocare come attore di riferimento egemonico, è quello di fare sponda a Seul sul caso fotovoltaico/lavatrici, anche per esacerbare quelle divisioni con Washington.


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