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Di Maio? Non è un democristiano, ma neanche un rivoluzionario. Parla Vincenzo Scotti

Ad accogliere Luigi Di Maio alla Link Campus, dove il candidato premier dei Cinque Stelle ha esposto il suo programma di politica estera, c’era una schiera di giornalisti, diplomatici, agenti consolari, ma anche una serie di volti amici. Fra questi ben tre professori dell’ateneo che il 4 marzo saranno candidati con il Movimento, fra cui Paola Giannettakis, criminologa ed esperta di sicurezza. E poi Angelo Tofalo, deputato pentastellato, membro del Copasir, che alla Link Campus ha frequentato di recente un master. Ad accogliere Di Maio c’era soprattutto il presidente dell’università, Vincenzo Scotti, che Formiche.net ha intervistato a margine dell’incontro. Ministro per ben sei volte, con una lunga esperienza alle spalle fra il ministero dell’Interno e la Farnesina, Scotti è soprattutto un democristiano doc. E Luigi Di Maio?

Professor Scotti, Luigi Di Maio è un democristiano?

No, ma sta prendendo atto che per governare ci vuole una cultura istituzionale e non solo rivoluzionaria.

In cosa è cambiato di più il Movimento 5 Stelle in questi anni?

Non si può dire che sia cambiato. Il Movimento ha problemi enormi all’interno. Se vuole trasformarsi in un partito delle istituzioni, deve portar dentro alle istituzioni uno spirito innovatore, ma con la capacità di costruire coesione nel Paese.

Il programma dei Cinque Stelle presentato oggi da Di Maio sembra più in continuità, che in rottura, con il passato. Quanto conta la continuità in politica estera?

Questo Paese non ha bisogno di discontinuità sul contesto internazionale e istituzionale. Ha bisogno di una forte continuità, di una ripresa delle sue radici. Se vuoi giocare un ruolo di respiro internazionale, devi avere un governo del Paese che sia rappresentativo, quanto più possibile, di una maggioranza che deve essere coinvolta su questi temi. La politica estera è innanzitutto continuità, il che non esclude un adattamento continuo della linea strategica.

Quanto pesa la politica estera sulla credibilità del Paese?

Abbiamo voluto invitare i candidati per vedere in che termini sulle questioni di politica estera oggi possibile avere convergenze che consentono al nostro Paese di recuperare una forte credibilità e incisività. Se si sottrare questa, rimane un governo debole. Si può avere una maggioranza parlamentare, ma sul piano internazionale conta essere veramente rappresentativi del Paese.

Oggi Di Maio ha ribadito la linea filo-americana, senza chiudere la porta al Cremlino. Qual è la posizione naturale dell’Italia fra Washington e Mosca?

Non può essere una posizione di equidistanza, ma è giusto svolgere un ruolo di mediazione. Nella nostra storia noi italiani, pur sempre all’interno dell’alleanza atlantica, abbiamo sempre giocato un ruolo di frontiera, consapevoli che le nostre radici sono prima di tutto qui. Se ci stacchiamo dalle radici non contiamo nulla, diveniamo dei mulini a vento fra Mosca e Washington.

I Cinque Stelle hanno dichiarato a più riprese di voler togliere le sanzioni contro Mosca. Ha funzionato la politica delle sanzioni fino ad oggi?

Io ho i miei dubbi sulle sanzioni, specialmente dal punto di vista della tattica. Ritengo che bisognerebbe cambiare questa direzione, ma insieme, senza fare proclami.

Di Maio si è mostrato scettico sulla missione italiana in Niger. C’è il rischio di giocare un ruolo ancillare nei confronti della Francia di Macron?

È evidente che esiste un rischio, ma è importante che a questo rischio corrisponda un’azione politica che lo disarticoli. Il problema è quello di non essere subalterni, ma di giocare un ruolo, senza dare nulla per scontato.

Il candidato pentastellato ha parlato più volte di voler “rivedere” le regole: su immigrazione, debito, spesa per la Nato. Esiste una tendenza tutta italiana di chiedere la revisione di regole che i nostri rappresentanti hanno approvato in passato?

Esiste certamente una tendenza a voler rivedere regole da noi sottoscritte. Il problema è lavorare insieme: l’Italia ha giocato un ruolo determinante nella crescita dell’Europa. Quando Adenauer e Schuman si sono messi in moto, De Gasperi ha fatto da mediatore tra Francia e Germania. È inutile fare proclami dal di fuori, dobbiamo lavorare dentro alle istituzioni, e avere una diplomazia affidabile e credibile.

C’è un grande assente dalla campagna elettorale: la politica di difesa, che in Europa costituisce l’altra faccia della medaglia rispetto alla politica estera.

È vero, la difesa dipende dalla strategia di politica estera. Difesa, cooperazione, diplomazia, cultura, sono tutti tasti di un piano che vanno suonati in modo armonico e coerenti fra di loro. Gli obiettivi di difesa devono essere coerenti con quelli politici, dobbiamo ritornare ad avere una visione strategica che sia fattibile, in politica estera i proclami non ci servono.

 



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