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Afghanistan, gli Stati Uniti non lasciano ma rilanciano la lotta contro il terrorismo

Secondo le informazioni ottenute per primo da The Hill, sito specializzato nei movimenti politici di Washington, martedì, durante un’audizione alla Commissione Esteri del Senato, l’assistente del segretario alla Difesa per l’Asia e il Pacifico, Randall Schriver, ha detto che gli Stati Uniti spenderanno quest’anno circa 45 miliardi per la guerra in Afghanistan. Non ci sono state smentite, dunque è lecito pensare che il numero non sia troppo strampalato.

Il Paese è precipitato nuovamente nel caos, i Talebani sono ormai da mesi tornati all’offensiva in diverse aree (anche se nel 2017 non hanno conquistato capoluoghi di provincia, nonostante i vari tentativi) e hanno ripreso a martoriare le città afghane con attentati devastanti come quello di fine gennaio nella capitale Kabul, in cui oltre cento persone sono rimaste uccise. Contemporaneamente, il territorio afghano è diventato luogo d’interesse per lo Stato islamico: il Califfato è stato sconfitto nella sua struttura statuale centrale, ma alcune diramazioni rimangono attive.

In Afghanistan c’è la cosiddetta Wilayah Khorsan, la provincia del Khorasan (area geografica storica che travalica i confini afghani comprendendo anche una fetta di Pakistan e di Iran), che davanti all’offensiva talebana s’è messa in concorrenza: le due organizzazioni si basano su fondamenti ideologici differenti – i Taliban ritengono la proprio guida l’Amir al-Muminin, ossia il capo dei fedeli, entità che per i baghdadisti è invece ricoperta dal Califfo – ma condividono lo stesso terreno quando si tratta di creare fascinazione e agganciare proseliti. E il proselitismo è conseguenza della forza che un gruppo emana, sia sconvolgendo l’ordine con gli attenti, sia combattendo i soldati locali e gli aiutanti esterni come i militari americani e Nato.

Gli Stati Uniti sono in Afghanistan da 17 anni, ossia da quando con la “War on Terror” di George Bush post 9/11 fu lanciata la missione per il rovesciamento del regime talebano che offriva protezione ai qaedisti attentatori. È già una guerra dalla durata storica, che ha mietuto vittime e dilapidato risorse economiche; e nonostante questo, ancora, dopo l’invasione americana, lo state building, il parziale ritiro obamiano, ci troviamo davanti a un necessario surge (ad agosto era stato annunciato l’aumento dagli 8400 lasciati là obtorto collo dall’amministrazione precedente: si sarebbe passati a 14mila militari americani) per fronteggiare i ribelli – e gli smottamenti interni dei sottogruppi radicali verso l’Is.

L’amministrazione Trump aveva promesso una revisione strategica sei mesi fa, si ventilava una possibilità politica visto che di fatto non c’è una soluzione militare, ma allo stato dei fatti sembra impossibile che Washington possa riportare i Talebani sul tavolo negoziale, e lo scorso mese è stato lo stesso presidente a declassare l’ipotesi. L’audizione di Schriver è stata la prima volta in cui un top quadro del Pentagono ha parlato della crisi afghana davanti ai congressisti dopo l’annuncio di Trump. I ribelli talebani (che sono jihadisti nazionalisti, detto tagliando con l’accetta, e hanno per lo più interessi locali rispetto alle azioni terroristiche all’estero che potrebbero invece organizzare i baghdadisti) sono operativi nel 70 per cento del paese e controllano una quantità di territorio come mai dopo il 2001. Per questo non hanno interesse al dialogo: una fonte militare della NBC ha stimato che forse al momento possono contare su 60mila combattenti.

E non c’è da sottovalutare che il commercio di oppio afghano, secondo un recente report del governo americano, è aumentato dell’87 per cento (da 4800 tonnellate a oltre nove mila): “I talebani sono […] un gruppo di ribelli, ma anche un cartello della droga: le entrate della droga rappresentano circa la metà del finanziamento totale dei talebani” ha spiegato ad Axios Seth Jones, il direttore del Transnational Threats Project del think tank CSIS. Gli americani hanno focalizzato la loro attenzione anche su questo settore, e stanno colpendo a raffica, con attacchi mirati, i laboratori della droga talebana, nell’ambito di un aumento delle attività per distruggere i network logistici dei ribelli.

Secondo l’ultimo bollettino della missione Nato afghana “Resolute Support”, gli Stati Uniti hanno iniziato i bombardamenti pure nella provincia settentrionale del Badakhshan (nota di colore: durante uno di questi attacchi aerei un B-52 americano ha sganciato 24 bombe di precisioni su postazioni talebane, che è il record di ordigni guidati sganciati contemporaneamente da una Fortezza Volante). La provincia si trova al confine con Cina e Tajikistan, a contatto con la zona dello Xinjiang, dove si annidano i jihadisti uiguri, enorme problema di sicurezza interna per Pechino, anche perché soggetti a contatti osmotici. Per questo i cinesi si sono offerti di pagare la creazione di una base locale per le forze afghane (che formalmente sono addestrate dai contingenti Nato).

(Foto: Wikipedia, un B-52 in rifornimento aereo sopra l’Afghanistan)



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