Dozzine di soldati americani, insieme ad armi e attrezzature, sono stati trasportati nelle ultime settimane dall’Iraq a un altro teatro operativo, probabilmente l’Afghanistan: è iniziata la riduzione del personale iracheno, schierato negli ultimi anni – vittoriosamente – per combattere lo Stato islamico, e contemporaneamente parte il surge afghano, dove i Talebani sono tornati un problema enorme e sta crescendo la forza delle fazioni baghadadiste locali.
La centralità statuale del Califfato, il cosiddetto Siraq, il territorio tra Siria e Iraq in cui Abu Bakr al Baghdadi aveva piantato il suo regno e centralizzato la fascinazione utopica che gli ha portato migliaia di foreign fighters, arrivati per compiere il jihad apocalittico in attesa del mondo perfetto, è caduta: Mosul e Raqqa sono territorio “ISIS-free”, dove i comandanti e i politici occidentali possono girare più o meno liberamente senza il rischio di finire sotto il Kalashikov di un miliziano del Califfo. Ma altri scenari si aprono, e lo spostamento di truppe è un fenomeno necessario per seguire le priorità (per esempio: l’Italia ha deciso di investire parte delle risorse ritirate dall’Iraq in Niger, per gli Stati Uniti, invece, è necessario arrivare a una quadra sulla decennale guerra afghana).
Si tratta del primo ritiro di questo genere da quando, tre anni fa, Washington si è intestato il ruolo di guida nella guerra contro lo Stato islamico. “La continua presenza della coalizione in Iraq sarà basata sulle condizioni, proporzionata alla necessità e in coordinamento con il governo iracheno”, ha detto all’Associated Press il colonnello dell’esercito americano Ryan Dillon, un portavoce della coalizione.
Una giornalista di AP è stata anche alla base di Al-Asad, nell’Iraq occidentale, dove ha seguito alcuni movimenti e parlato con alcuni contractor presenti e con gli iracheni. Questi ultimi dicono che secondo gli accordi tra Baghdad e Washington alla fine resteranno soltanto 4000 soldati americani, ossia il 40 per cento del totale attuale. Il governo iracheno, guidato da Haider al Abadi, che cerca una rielezione alle prossime votazioni, sta provando a barcamenarsi tra la presenza statunitense con le influenze iraniane: i partiti/milizia sciiti, che sotto l’ombrello del raggruppamento militare Al-Hashd Al-Shaabi hanno combattuto lo Stato islamico, hanno guadagnato rilevanza, e detestano gli americani; si tratta di alcune delle entità proxy con cui Teheran sta esercitando il controllo nella regione, tanto che le comunità sunnite irachene vedono la presenza americana come una garanzia contro un potenziale settarismo sciita al potere.
Però, questo shift americano – e l’interesse iracheno connesso, legato a questioni politiche interne – deve bilanciarsi con una realtà di fatto: sebbene Baghdad abbia dichiarato (a dicembre del 2017) la vittoria sul Califfato, una colonna vertebrale centrale è comunque rimasta attiva, e pericolosa (lo dimostrano gli attentati che ancora devastano la capitale irachena).
La attendono mesi di clandestinità del tutto simili a quelli che seguirono la parziale sconfitta dei qaedisti iracheni negli anni tra il 2006 e il 2007, ma il rischio è che, come allora, si riorganizzino e tornino a combattere, mentre infiammano il paese con la guerriglia. Da tenere a mente, che, ai tempi, la presenza di un governo sciita amico degli americani, ma fortemente settario contro i sunniti, fu uno dei catalizzatori per l’esplosione dei baghdadisti – che in alcune zone erano visti dalle comunità sunnite, soprattutto nei primi periodi, come una reale opportunità davanti alla pesantezza del governo, una via per tutelare i propri interessi, in un certo senso una forma di stabilizzazione.
Situazione analoga è avvenuta nella Siria nord-orientale, dove l’Is aveva piazzato la seconda roccaforte – insieme all’irachena Mosul – a Raqqa. Migliaia di baghdadisti sono scampati alla campagna di bombardamenti mirati americani e alle operazioni di terra operate dalla milizia curdo-araba Sdf sotto egida occidentale. Ora non fanno più riunioni simboliche sul campo da calcio di Raqqa, ma si sono dispersi sul territorio siriano – un processo avvenuto anche a seguito dei patti pragmatici chiusi con l’esercito di Damasco, bramoso di riconquistare terreno per rivendicare il ruolo di forza di anti-terrorismo, a legittimazione delle repressioni sui ribelli. Anche in Siria il rischio della presenza di un regime dispotico, che resterà al potere nonostante le crudeltà compiute durante la guerra civile, e che potrebbe avviare politiche settarie sotto l’influenza iraniana, può creare altri presupposti per la rinascita violenta dell’organizzazione di Baghdadi.
Ma c’è di più: l’Is potrebbe attendere i tempi migliori mentre lavora nel mondo del crimine, rafforzando il proprio network territoriale.
“In seguito alle sconfitte territoriali, l’Is cercherà di tornare alle sue origini, cioè al dominio delle reti criminali tra Siria e Iraq, gettando le basi per un ritorno, questa volta definitivo, del califfato come realtà territoriale”, spiega Luciano Pollichieni, ricercatore dell’Università di Nottigham, in un saggio uscito sull’ultimo numero di Limes con un titolo emblematico: “Lo Stato islamico continuerà a combattere”. “Come dimostrato dagli studi di Aisha Ahmad, negli ultimi quarant’anni, ogni volta che i gruppi terroristici hanno attraversato un momento di crisi, hanno ripiegato sulle attività criminali per garantire la propria sopravvivenza”, spiega Pollichieni, secondo cui la prossima fase temporale vedrà il gruppo muoversi sulle rotte della criminalità. L’analisi sottolinea che il processo di polarizzazione della società nei territori in cui i miliziani e i pensatori baghdadisti si radicheranno, è da considerarsi terreno fertile per la diffusione della loro ideologia (compreso tra le società occidentali).