Xi Jinping come Mao? Dallo storico diciannovesimo Congresso del Partito comunista cinese lo scorso ottobre alla decisione, annunciata dal partito a gennaio, di inserire nella Costituzione della Repubblica popolare cinese il suo contributo ideologico (già scolpito a ottobre nello statuto del Pcc), la scalata del presidente cinese non si arresta alle istituzioni, ma va oltre, avvicinandolo idealmente, e forse anche concretamente, a Mao Zedong, il fondatore della “Nuova Cina” nel 1949. La decisione del partito, annunciata questa domenica dall’agenzia di Stato Xinhua, di emendare la Costituzione per eliminare il limite di due mandati presidenziali, segna una cesura fra Xi e chi lo ha preceduto a Zhongnanhai (il compound del potere cinese accanto alla Città Proibita).
“Rimuovendo questo vincolo costituzionale Xi mostra una forza politica senza precedenti negli ultimi 40 anni, e questo ci deve fare presumere che la sua intenzione non sia governare da dietro alle quinte, magari etero-dirigendo un suo potenziale successore, ma continuare a tenere le leve del potere in prima persona”, spiega a Formiche.net Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino, che non è affatto sorpreso dell’annuncio di Xinhua: “Negli ultimi due anni a Pechino si è sentito parlare sovente della possibilità che l’attuale presidente rimanesse in carica per più di due mandati”. La modifica dell’articolo 79 della Costituzione lancia un messaggio chiaro: in Cina “comanderà chi è anche formalmente nelle posizioni apicali del Partito-Stato”. Questo in sé può essere un fatto positivo in termini di trasparenza istituzionale, ma pone anche dei rischi non indifferenti, precisa l’esperto: “Contraddice una dinamica di istituzionalizzazione del potere, e questo può mettere sotto pressione l’assetto politico, perché si comprimono i margini di carriera della prossima generazione di leader del Partito comunista, forzando un allineamento alle posizioni di Xi che non agevola la presenza di un sano contraddittorio nei momenti decisionali di vertice”.
Il mandato “a tempo indeterminato” di Xi avrà inizio il 5 marzo, con la convocazione dell’Assemblea Nazionale del Popolo, che dovrà votare il pacchetto di emendamenti costituzionali. Non solo l’articolo 79: in linea con quanto deciso a gennaio, si diceva, entrerà in Costituzione il “Pensiero di Xi” come nuovo contributo ideologico guida del Partito-Stato. Un rituale per cui sono passati anche i suoi predecessori, che hanno lasciato un segno nello statuto del partito o nel testo costituzionale prima di abbandonare la carica presidenziale (che dal 1993 coincide con quella di segretario del Pcc). Il caso di Xi è però diverso: Andornino, che è anche vice-presidente del Torino World Affairs Insitute (T.wai), fa notare che “Xi non sta affermando la propria impronta ideologica nella Costituzione mentre si accinge a lasciare le cariche di Presidente della Repubblica popolare e Segretario generale del Partito, ma mentre è nel pieno del suo potere. Governerà l’intero sistema alla luce del suo contributo ideologico: solo Mao prima di lui ci era riuscito.”
A differenza di Mao però, la costituzionalizzazione del “Xi-pensiero” non darà vita nell’immediato futuro a un vero culto della personalità. “Non siamo ai tempi della celebrazione di Mao come Sole dell’Oriente o delle adunate oceaniche con il libretto rosso”, chiarisce il professore. C’è piuttosto “una tendenza al conformismo, un lessico ufficiale del potere che diviene punto di partenza per qualsiasi riflessione, e non lascia margini di critica”.
Se dunque il paragone con il Grande Timoniere appare un azzardo, tanto più sembra inappropriata l’analogia con Vladimir Putin, sulle bocche di non pochi opinionisti internazionali in queste ore. “Un paragone improprio” taglia corto Andornino. “La Russia di Putin è un’esperienza di democrazia illiberale, ma formalmente è un regime democratico. Il regime cinese non lo è, e non pretende di esserlo. È un sistema autoritario, e a differenza di quanto si finge di fare in Russia, non consente la formazione di piattaforme politiche in competizione”. Mentre il Cremlino inscena “un momento elettorale che può solo produrre un esito che piace al potere”, Pechino vede un unico partito al comando, “che esprime in assoluta solitudine, ecumenicamente, gli interessi della popolazione e non consente la partecipazione di altre forze politiche alle elezioni”.