Parlando lo scorso weekend a una conferenza organizzata dal quotidiano Yedioth Ahronoth, Shaul Mofaz, ex capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano e poi ministro della Difesa per Ariel Sharon, ha detto che anni fa John Bolton, Consigliere per la Sicurezza nazionale americana fresco di nomina, ha fatto più volte pressioni sul governo di Tel Aviv affinché Israele lanciasse un attacco preventivo contro l’Iran.
Per comprendere il contesto e il peso di queste dichiarazioni serve un breve inquadramento storico. Mofaz – che ha parlato in un panel assieme ad altri quattro defense-chief israeliani, nessuno dei quali lo ha smentito nemmeno parzialmente – dice che quelle pressioni di Bolton risalgono ai tempi in cui era ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, ossia il periodo di mandato affidatogli da George W. Bush durato dal 2005 al 2006.
Eravamo nel pieno della War On Terror, criticata da sempre da Donald Trump ma di cui Bolton era l’aggressiva rappresentanza diplomatica nella massima assise internazionale, e Washington (con Israele e gli alleati del Golfo) si trovava davanti il doppio gioco iraniano.
Teheran si professava uno stato che lottava contro il terrorismo, ma finanziava le milizie politiche sciite che in Iraq attaccavano i soldati americani tanto quanto al Qaeda; sono le stesse milizie di cui ci si è avvalsi, a distanza di anni, per scacciare il Califfato dal suolo iracheno, in un’alleanza strettamente pragmatica, visto che le visioni ideologiche di quelli che ai tempi della guerra d’Iraq venivano chiamati “gruppi speciali” non sono per niente cambiate, e anzi il loro anti-occidentalismo s’è diffuso nel Paese in modo direttamente proporzionale alla loro crescita politica (di questo parliamo quando ci riferiamo all’influenza iraniana in Medio Oriente).
Allo stesso tempo, sempre in quegli anni, l’Iran faceva un doppio gioco sporco coi qaedisti e con i talebani, offrendo rifugio e background (attraverso le parti grigie dell’intelligence) a quelle organizzazioni radicali sunnite che gli americani combattevano in Iraq e Afghanistan e almeno in linea teorica avrebbero dovuto essere piuttosto distanti dalla repubblica degli sciiti. Un esempio: il mullah Omar, il leader talebano e guida spirituale qaedista, è stato ucciso due anni fa da un missile sganciato da un drone americano mentre rientrava dall’Iran, dove viveva protetta la sua famiglia. Testimonianza che questo comportamento iraniano non è ancora finito.
Questo quadro, ai tempi di Bolton, si portava dietro un’altra questione enorme: l’Iran, uno stato inaffidabile che flirta con i terroristi e aveva già ai tempi mire espansionistiche (in Iraq, in Libano, in Siria, per esempio), stava spingendo un proprio programma nucleare. Gli Stati Uniti cercavano di bloccarlo per via diplomatica, anche attraverso la diplomazia dura delle sanzioni, ma in mezzo a queste iniziative più tenui c’era chi – come l’allora ambasciatore, ora consigliere della Casa Bianca – si sentiva in dovere di promuovere un’attività di lobbying affinché Israele, nemico esistenziale iraniano, si convincesse che meglio della strada diplomatica c’era quella delle bombe che avrebbero raso al suolo i centri nucleari iraniani.
D’altronde, Bolton, è uno che anche in questi giorni continua a pensare che in una situazione analoga, quella nordcoreana, un attacco preventivo sia la migliore delle leve da usare per togliere dalla testa del satrapo Kim Jong-un le ambizioni atomiche.
Gli israeliani, secondo quanto detto da Mofaz, non ritenevano l’attacco”un’azione saggia” contro l’Iran, ma in quegli stessi anni mandarono un messaggio piuttosto chiaro a Teheran. Nel 2007, secondo i documenti da poco desecretati dall’intelligence di Tel Aviv, un reattore che lavorava per l’arricchimento del plutonio a scopi bellici in mezzo al deserto siriano fu raso al suolo dai caccia dell’aviazione israeliana. Il regime ostile di Damasco, amico dell’Iran, stava costruendo la Bomba con l’aiuto della Corea del Nord (non è solo una contorsione della storia, questi link sono noti ed esistono ancora secondo l’Onu, ndr) per colmare il gap militare con Israele: una situazione intollerabile per gli israeliani, che sapevano che avrebbe potuto avere ripercussioni sul futuro della regione, degli equilibri, e dei rapporti tra nemici dello stato ebraico.
Altra contestualizzazione: siamo nel 2007, si è detto, l’anno precedente c’era stata la guerra tra Israele e Hezbollah, il gruppo politico armato con cui l’Iran controlla da anni il Libano che adesso, a distanza di un decennio e rinvigorito dall’esito vittorioso della guerra civile siriana minaccia di nuovo di attaccare gli israeliani. Israele decise lo stesso di colpire in Siria, con la consapevolezza che sarebbe potuto scoppiare un altro conflitto, ma privilegiando l’ottica della sicurezza nazionale.
Eppure, secondo Mofaz, colpire l’Iran resta un passo non saggio e “non solo da parte degli americani ma di chiunque altro, finché questa minaccia non diventa reale”. E questo è interessante per i giorni nostri, in cui ci si avvicina a una nuova, decisiva, scadenza del Nuke Deal, ossia l’accordo multilaterale che dal 2015 ha congelato il programma atomico iraniano – e qualsiasi ardore su avventure militari contro Teheran.
Bolton è considerato un falco, che potrebbe spingere il presidente Trump su una linea ancora più dura con l’Iran. E questa posizione potrebbe alzare notevolmente le tensioni, considerando che l’influenza politica iraniana è cresciuta negli ultimi sette anni – quelli della guerra in Siria, dove l’Iran ha combattuto insieme alla Russia per mantenere in piedi il regime amico e intanto si espanso in diversi paesi della regione – e contemporaneamente è cresciuto il fronte dei paesi che stanno veicolando le proprie politiche assertive contro Teheran. Su tutti, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, che vivono singolari relazioni con Israele nell’ottica di questo allineamento contro il nemico – e protette dagli Stati Uniti, alleato comune con visioni simili sull’Iran.
Hossein Naghavi Hosseini, portavoce dell’autorevole Commissione parlamentare per la sicurezza nazionale e la politica estera iraniana, ha detto all’agenzia semi-ufficiale Isna che la nomina di Bolton, così come quella dell’ex capo della Cia Mike Pompeo a segretario di Stato, “dimostra che l’obiettivo finale degli Stati Uniti è rovesciare la Repubblica Islamica”.
L’Editorial Board del New York Times ha scritto che Bolton è effettivamente pericoloso (“La cosa buona è che dice quel che pensa. La cosa cattiva è quel che pensa” ha scritto il consiglio editoriale del tempio del giornalismo mondiale) perché “ci sono poche persone più propense del signor Bolton a guidare il paese verso una guerra”.
Bolton, che ha denigrato nelle ultime settimane i tentativi di colloquio con la Corea del Nord sostenendo la legittimità giuridica di un attacco armato contro Pyongyang, pensa che gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano; nel 2015, nei mesi in cui si stava chiudendo il deal aveva esplicitamente chiesto all’amministrazione Obama di ripensare tutto e procedere a un bombardamento contro l’Iran in un op-ed pubblicato sempre dal Nyt.
Solo un’azione militare, come l’attacco israeliano del 1981 al reattore Osirak di Saddam Hussein in Iraq o la distruzione del 2007 di un reattore siriano, “può portare a termine ciò che è necessario” con l’Iran, scriveva Bolton.
(Foto: Twitter, @AmbJohnBolton)